sabato 25 febbraio 2012

J'ai tué Schéhérazade


Confessions d’une femme arabe en colère

di Joumana Haddad

Ho trovato questo libro nella libreria Mille Feuilles del quartiere La Marsa a Tunisi e mi ha conquistata la foto di copertina e il nome dell’autrice della quale avevo sentito parlare spesso senza aver avuto l’occasione di leggerla. Certo il titolo è evocativo e il testo ribalta l’immagine che io avevo sempre avuto di Schéhérazade, un simbolo positivo di femminilità, per me l’equivalente della seduzione intelligente, che conquista con la fantasia e il cuore, non con il corpo. La vicenda è nota da Mille e una notte. La principessa non si concede e quindi non firma la propria condanna a morte, rinviata all’infinito, nell’incantamento del suo raccontare che ammalia il principe. Per l’autrice, giornalista e scrittrice libanese, poliglotta, è sì un simbolo di vittoria ma anche di negoziazione, nel senso che è una femminilità che sopravvive perché rinuncia a qualcosa di sé, per essere rispettata dall’uomo. Forse qui, come in altri passaggi del testo, la posizione di Joumana è un po’ esasperata perché credo che una donna sia anche accoglienza del diverso che implica necessariamente un adattarsi per se-ducere appunto, per incontrare il linguaggio dell’altro. Per l’autrice invece mai crimine fu così gioioso e morale perché, pur non definendosi femminista, non ammette nessuna spinta per ricondurre la donna ad un’immagine precostituita, così come ricorda quando lo zio le regalò una bambola e una cucina attrezzata per giocare. Forse chi esce da una situazione di costrizione ha una reazione che non è contenibile e che scivola in una proposta altrettanto estrema, sebbene – è corretto riconoscerlo – Joumana torna a precisare più volte nel corso della narrazione che la femminilità è vivere profondamente la propria vocazione, quale che sia, quindi anche occuparsi solo della casa e dei figli. La domanda iniziale dalla quale parte il saggio, che insieme un’autobiografia, è se esista una donna araba. La risposta è che non si tratta di un genere uniforme e, soprattutto, che non tutte le donne arabe, sebbene religiose praticanti e velate, siano per queste ragioni sottomesse; così come, parimenti, al di là dell’apparenza, non è detto che tutte le donne cristiane siano emancipate e libere. Certo, sottolinea la scrittrice, essere donne arabe oggi, significa aver dovuto elaborare una sorta di schizofrenia. Il mondo arabo sta infatti esercitando una dittatura, che grava in particolare sulle donne, che mira al predominio del gruppo sull’individuo, ovvero sul controllo della libertà e creatività personale. In tal senso l’Islam è il peggiore nemico di se stesso. A questo parametro Joumana si ribella, sfidando le regole del suo mondo, e fondando un magazine, “Jasad”, corpo, per parlare di erotismo. In effetti questo progetto non è che un punto di arrivo, sebbene intermedio, di un percorso che parte dalla fine dell’infanzia nella quale l’autrice si sottrae al mondo dei giochi e perfino di alcune esperienze, per entrare nel mondo dei libri che rappresentano la sua vera trasgressione. Si getta a capofitto quasi con un accanimento in letture che la portano nel mondo trasgressivo di De Sade e della letteratura erotica in genere. E’ un’inclinazione nella quale mi sono riconosciuta ampiamente rivendicando il diritto alla trasgressione intellettuale ché l’arte non può avere confini e limiti che ne castrano l’ascesa, sebbene i confini dei comportamenti devono invece, a mio parere, essere tracciati rigorosamente. Joumana parla di una vera e propria ossessione, anche pericolosa, che ci appare ad un tempo come una difesa rispetto alla vita reale. La sua ribellione si leva contro la sessualità e l’erotismo che sembrano appartenere esclusivamente al mondo degli uomini, mentre nell’universo femminile diventano tosto scandalo e letteratura erotica se non addirittura pornografia. Mentre l’infanzia trascorre libera ma in un mondo parallelo, la vita quotidiana di Joumana si svolge in una Beyrouth blindata dalla guerra ed è per questo che nella sua memoria intima l’infanzia non risveglia il sapore della dolcezza. Ambiguo anche il rapporto con la sua città, che guarda con rispetto e distanza, senza quel senso di appartenenza profondo ed emozionale che spesso è proprio di ognuno di noi. L’analisi è interessante perché osserva con ironia il mito della capitale libanese agli occhi del mondo arabo e soprattutto occidentale che ne conservano il fascino, di chi non l’ha subita come la nostra protagonista. Il futuro di Joumana diventa la scrittura, che condivido essere un grande laboratorio per formare se stessi e creare un dialogo intimo quanto filtrato con il mondo esterno, e soprattutto la poesia che è primariamente libertà, messa a nudo di se stessi, in particolare quella erotica. E ancora torna la critica al mondo arabo che, secondo la Haddad sputa su quello che desidera. Tornando sulla questione della femminilità, l’autrice si definisce una fanatica della sua affermazione che è coestensiva al bisogno di un uomo che non significa la dipendenza dal padre, dal fratello o dal marito. In questo ambito a suo giudizio la religione gioca un ruolo negativo che spinge all’odio tra le persone. Da parte mia mi auguro che il suo cognome, Haddad, sia portatore di una riconciliazione dato che nel mondo arabo è molto diffuso e ci sono haddad musulmani, ebrei, come anche cristiani. L’apertura è alla vita perché vivere, secondo la giornalista è essere fieri di quello che si è anche per le proprie sconfitte e così alla fine del libro torna la domanda sulle donne arabe che oggi appaiono funamboli sospese in alto senza una rete di protezione sotto il filo. C’è una nota nello stile della Haddad che merita attenzione, la sua semplicità che anche nell’estrema effervescenza critica non diventa aggressività e la sua umiltà nel presentarsi con uno scritto che descrive la propria esperienza senza pretendere di diventare un manuale di istruzioni per l’uso.

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