di Mariù Safier
La prima cosa che mi ha colpito del libro è stato venire a
sapere che si trattava di un romanzo sul cui sfondo c’era la Libia, non solo
quella emozionale, personale ma storica, attuale e politica con inserzioni documentate
e varie dall’excursus storico che ripercorre con brevi frammenti la storie del
paese dai tempi dei romani, a divagazioni culturali fino a incursioni nella
cronaca. Il libro è però a tutti gli effetti un romanzo e anche la parte
documentata è posta, talora giustapposta, come un racconto, un aneddoto che una
voce narrante - forse quella della stessa protagonista, Babette - rievoca. Mi
ha interessato questo doppio piano perché è la stessa scelta che ho fatto, pur
in uno stile completamente diverso, con il mio “Tunisi, taxi di sola andata” e
rispetto al quale qualcuno prima di leggerlo aveva sollevato perplessità e, poi
curiosità. Due paesi confinanti, al tempo delle rivolte del Maghreb; due storie
di donne che il dolore ha ferito; due viaggi che mescolano l’oggi e un passato
molto lontano che ci tocca da vicino, quello della conquista romana e quello di
un’Italia più prossima, al tempo del Fascismo nel libro di Mariù Safier quando
la Libia era considerata uno scatolone di sabbia; al tempo della fuga degli
ebrei livornesi e della presenza forte dei siciliani, nel mio libro. E ancora una riflessione sul sacro, sull’Islam
che affiora, sulla vicinanza e lontananza con il nostro mondo, comunque con la
ricerca attenta di studiare e non avvalersi del sentito dire.
Lo stile di Mariù è fresco, coni l candore di un diario e la
ferocia del dolore. La storia affiora a poco a poco dalla corrispondenza dei
due amanti, Babette e Geppy e poi un andare e venire nel tempo che apprendiamo
dalla narrazione della protagonista che adagio ci disvela la storia di un amore
malato attraverso il quale troverà se stessa e le proprie ragioni con la
determinazione a scavare il tunnel verso la luce per risorgere.
E’ la figura del padre, manesco, distratto, finto che l’ha
umiliata ad averla per sempre prostrata alla vita. Quel padre che avendo perso
troppo giovane, a 14 anni per un incidente d’auto, non ha avuto il tempo di
recuperare prima di affacciarsi alla sua vita di donna.
L’evoluzione incompiuta, peggio, distorta la porterà ad una
scelta autodistruttiva dalla quale ad un certo punto riuscirà ad uscire
cercando la sopravvivenza, senza leggerezza, né drammaticità ma semplicemente
con il dolore di una ferita che può rimarginarsi ma senza poter nascondere la
cicatrice. E’ quanto si intuisce. E c’è un’amarezza in più: Babette non ha
ancora perdonato. Per chi sa amare però il perdono è una condizione per
rinascere e di amore verso se stessi prima che verso l’altro. Si capisce quindi
l’augurio nelle pagine introduttive della scrittrice che svelano anche che il
romanzo è costruito su una storia vera. In fondo la vita ha più fantasia di noi
e la realtà è una grande ispirazione: In questa pagine accorate, dove la
scrittrice lascia i suoi personaggi fuoriuscire senza guidarli né tanto meno
condizionarli, c’è l’impegno di una donna che con la scrittura ‘cura’ in
qualche modo un’altra donna perché forse la sua storia può servire ad altri.
Tra le pieghe di questa scrittura che ha momenti di intenso
lirismo mai ‘carico’, mai sdolcinato ma asciutto e profondo, voglio ricordare
un messaggio di speranza nelle ultime pagine: “Lungo la strada qualcuno mi ha
detto: Babette non oggi, non domani, ma più avanti, scoprirai che questo
non-amore non ha solo preso e preteso da te; ti ha dato qualcosa. Quando lo
avrai trovato, sorriderai”.
La mia della guarigione in fondo Babette l’ha già trovata,
avendo scoperto di aver amato un mercenario e quindi dopo aver dolorosamente
appreso di aver coltivato “lo zucchero per raccogliere fiele” ha anche provato
l’inversione dell’amore nell’odio e quindi di aver maturato il distacco ed
essere sfuggita alla follia.
Da contorno le lettere al miele, appiccicose, dell’uomo che
incanta, incatena e trascina nel gorgo; per poi rivelare il proprio lato oscuro
nella violenza delle parole e dei litigi cercando un alibi del “te lo avevo
detto”, “non ho mai nascosto le miei intenzioni”. Ed evidentemente a questo
crescendo fa da contraltare la negazione dell’evidenza di ogni amore totale e
malato. Altro contorno, senza nessuna volontà di sminuirlo, l’amicizia preziosa
di una ragazza che non giudica, non curiosa, consapevole e impotente come
chiunque abbia provato ad aiutare una persona innamorata, pronta a scontarsi
contro un muro di gomma senza arrendersi e destinata a fallire nell’obiettivo a
breve; a seminare la stima dell’affetto per curare le ferite e risorgere.
Interessante la Libia del deserto e delle tribù, delle tre
regioni principali – la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan – la sua musica
che è narrazione, invito alla preghiera e alla lotta, non puro piacere
evocativo; l’incrocio degli interessi economici che hanno nel tempo portato la
Libia sotto le diverse influenze fino all’arrampicata del Colonnello e al suo
trionfo senza battaglia con il passaggio dalla monarchia alla Repubblica in una
notte.
Un libro che emoziona e fa male perché mette il dito nella piaga
di quella che dovrebbe essere l’anticamera della felicità e spesso diventa il
preludio dell’inferno e un documento interessante alla fine del quale quasi
senza accorgersene si sono appresi molti aspetti di un Paese che ci è tanto
vicino e conosciamo poco e male. Delicato e forte ad un tempo.
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