“Schegge di luna”
di Gian Carlo Tusceri
prefazione di Giuseppe Tusceri
prefazione di Giuseppe Tusceri
Ho
conosciuto questo libro direttamente dal suo autore che non so per quali vie mi
abbia conosciuta, chiedendomi di leggere il suo libro del quale mi ha fatto dono.
Mi ha colpito il luogo di nascita, l’isola La Maddalena in Sardegna proprio nel
momento in cui stavo mettendo a punto il nuovo blog Il Chiasmo del
Mediterraneo, nel quale le isole ricoprono una singolare posizione; non solo,
ma l’anno di nascita di suo padre è lo stesso di quello del mio e in qualche modo mi ha scritto
che la storia di questo testo è legata a suo padre. Come racconta nella
prefazione Giuseppe Tusceri, il figlio dell'autore, “ci sono cose che, nella vita di una persona, lasciano il segno più
di altre” e a tale proposito ricorda un libro che portava il nome di suo padre.
Scrive: “Erano solo poche pagine e guardandolo pensai che era piccolo per
diventare una pietra miliare!”. Anch’io ricordo che, diversamente da quello che
poi sarei diventata, iniziai realmente a leggere tardi, proprio grazie a mio
padre che mi regalò il suo “Ferie d’agosto” di Cesare Pavese. Avevo quindici
anni e da allora non ho mai smesso di leggere. Le parole che passano per un
verso o per l’altro attraverso gli affetti e le emozioni sono destinate a
restarci dentro più a lungo e più intensamente. Cosa accade a Giuseppe? Il
libro lo trasporta indietro di 50 anni
facendolo rivivere una guerra che aveva solo studiato sui libri di
testo, di storia. Il sapore è completamente diverso. Emerge il racconto vivo
della vita, non dei protagonisti, ma della terra, delle vibrazioni del cuore.
Gian
Carlo Tusceri ci regala in poche pagine dense, che non dovrebbero essere né una
di più né una di meno – fatto assai raro per gli scrittori – una visione
succinta, impietosa e persino poetica della guerra, con un linguaggio schietto
dove la metafora ferisce deliziando con un lirismo senza compiacimento. La
strega della guerra è l’anima che torna e ritorna nei capitoli con il dolore e
la fascinazione della perversione umana come la canzone “Generale”, con una sua
bellezza anche se fa male.
E’
un affresco a tinte nitide, una lingua che distilla, non risparmia, senza
indugi, senza compiacimento, senza grottesco: è il “Rigodon” italiano, specchio
di quella vicenda assurda come il viaggio di Céline verso il nord della
Francia, in compagnia del suo gatto. Anche qui c’è lo stridore tra la bellezza
del paesaggio, un’isola, che sembra dimenticare e far dimenticare la violenza e
la crudeltà della distrazione che colpisce a caso, senza poter distinguere le
divise tedesche da quelle italiane.
La
guerra si presta con difficoltà ad essere studiata, sembra suggerirci l’autore,
al di là delle interpretazioni artefatte degli studiosi per ché è uno
“sconcertante fenomeno di violenza collettiva organizzata”. Le definizioni nel testo sono lapidarie, di
una pregnanza che merita una seconda lettura eppure sgorgano con naturalezza,
quasi con nonchalance. La guerra sembra
costruirsi da una parte per essere esportata altrove – e forse è la forma più
bieca – in certi luoghi trasuda invece per anni; in altri ancora viene
dimenticata perché la pace possa dilatarsi e prendere possesso dello spazio
come a voler farci credere che c’è davvero e durerà per sempre, sembra
suggerire Tusceri.
La
Maddalena, una sorta di roccaforte naturale, è un luogo dove si fa fatica a
mantenere la memoria per la sua stessa natura perché “in questo ambiente, così
istintivamente recuperato ogni volta alla vita, il sole e la luna di alternano,
comunque, di norma, in attesa di una nuova guerra, a cui nessuno, giustamente
vuole però pensare”.
Nel
testo si avverte la tensione tra due pulsioni contraddittorie, la forza del
ricordo, forse una qualche nostalgia perfino per quello che è stato anche se
doloroso e la necessità di dimenticare per tornare a vivere.
Dopo
questa premessa, quasi un elegia, il lettore viene calato nella cronaca storica
dell’8 settembre del 1943, premessa di un sogno, anticamera di un’illusione.
Alla Maddalena qualcuno rubò sette schegge di luna, “avvolte nell’ovatta calda,
la strega della guerra aveva infilato strette, in bell’ordine, dentro il nastro
della mitraglia di posizione, oleata sotto la rugiada, all’alba dell’otto
settembre del quarantatre, giorno della Natività di Maria Vergine, dedicato
dalla cristianità alla pace e alla riconciliazione tra i popoli”. E’ una beffa la guerra che il linguaggio di
Tusceri rivela in tutto il suo livore violento per cui la carica di una
mitragliatrice diventa “il rosario di schegge lucenti”. E’ nell’ornare la
guerra, la strega, che l’autore ne mostra il teschio come certi passi di Boris
Vian de’ “L’écume des jours” dove un tumore è una ninfea del petto. C’è nelle
immagini dello scrittore un rieccheggiare dell’estetica medioevale – pur nel
tratto moderno e sintetico della lingua – che richiama i trionfi della morte e
gli ossari di certe chiese che forse ha visitato.
C’è
una meraviglia, uno stupore che non ha alcuna dolcezza, solo sconcerto per lo
stridere della bellezza della luce che poi diventa bagliore di incendio vorace.
E come un refrain il colore delle
divise – della pelle o di altro – poco importa: è la vita che si è spenta,
bruciando sette figli di mamma, a qualsiasi parrocchia o contrada
appartenessero.
C’è
un elemento che resta sfumato ma a chi è attento e abituato a leggere tra le
righe non sfugge: dov’è Dio? Accanto a chi cammina? Un giorno si è riposato, il
settimo, ma a’ La Maddalena era martedì e non sabato come si legge nelle
Scritture. Forse il suo riposo dovremmo chiamarlo distrazione? L’autore
sapientemente ed elegantemente sorvola, non prende posizione ma in due passaggi
solleva il coperchio del processo a Dio.
Allo
storico resta solo il compito di ricostruire i fatti, spesso purtroppo affidato
alla memoria di sguardi disonesti perché “tutti i capitani indistintamente
avevano bisogno di dimenticare, per potersi riproporre ancora vergini per nuovi
posti di comando e…crollato il punto di equilibrio della memoria, si è resa per
molto tempo indisponibile” la ricostruzione.
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