lunedì 25 febbraio 2013

Da Editoriaraba - “Come fili di seta”, quando dal Libano arriva la grande letteratura internazionale (e una lezione di vita)


“Come fili di seta”, di Rabee Jaber, è stato pubblicato da Feltrinelli sul finire del 2011
Quando Marta Haddad lasciò il suo paesino di Btater, poche anime arroccate sul Monte Libano, per andare in America, era il 1913 e Marta aveva circa vent’anni. Prese navi, traghetti e treni, attraversò tre continenti, si ammalò e poi guarì, conobbe l’umanità colorata e avventurosa dei primi immigrati di Ellis Island, ebbe paura di essere scartata ai controlli, ma poi ce la fece e raggiunse New York. Cercava suo marito, la giovane Marta Haddad, orfana dei genitori, cresciuta dallo zio, che si era sposata giovanissima con suo cugino Khalil. Un amore intenso ma durato poco perché poi Khalil l’aveva abbandonata, di punto in bianco, per cercare fortuna negli Stati Uniti, il paese dei sogni, la nuova frontiera da scoprire per gli immigrati avventurieri di tutto il mondo. E con una decisione che aveva colto di sorpresa tutto il villaggio, la giovane Marta era partita da sola alla ricerca di Khalil, che non dava più segni di vita da oltre un anno, inghiottito dalle praterie americane, fagocitato dalle fabbriche della Ford, o chissà.
Arrivata a New York, Marta aveva fatto un’amara scoperta sul marito – che nel frattempo era diventato Joe Haddad – ma invece di buttarsi giù e tornare sconfitta a Btater, si era rimboccata le maniche, imparato un mestiere e l’inglese, e aveva cominciato una vita nuova. Tutta da sola.
Marta chi è? Questa donna con il viso tondo, gli occhi grandi, morbidi capelli neri e dita sottili che ti avviluppano il cuore come fili di seta; questa donna, questa Marta chi è? 
Proprio da questa frase è stato tratto il titolo italiano (forse un po’ stucchevole e fuorviante) del primo e finora unico libro tradotto in italiano dello scrittore libanese Rabee Jaber, che nell’originale arabo è Amrika, ovvero America. Perché è vero che "Come fili di seta" segue la vita di Marta Haddad dal 1913 al 1974, anno della sua morte, ma questo poderoso romanzo (poco più di 400 pagine) è anche un affresco corale sulla vita di quei tantissimi uomini e donne che dalle parti più sperdute del mondo, cominciarono ad affluire copiosi sull’isoletta di Ellis Island, dirimpettaia di New York, sin dalla fine del XIX secolo. Molti di loro provenivano da quelle province ottomane dello Sham di un Impero ormai in disfacimento, che oggi si chiamano Siria e Libano, in cerca di un lavoro che non fosse più solo quello di coltivare la terra o i bachi da seta nei proprio campi e giardini.
E il lavoro, all’epoca, per i nuovi immigrati, siriani, italiani o cinesi che fossero, poteva voler dire solo una cosa: fatica. E di fatica ne dovevano sopportare tantissima gli ambulanti, che giravano gli Stati Uniti con la Katia sulle spalle, un baule zeppo di articoli dei più svariati tipi da vendere alle casalinghe americane che abitavano nelle regioni più remote, talmente pesante che segnava le spalle e incideva cicatrici così profonde sulla pelle dei migranti che rimanevano per la vita.
Una delle immagini più suggestive che il romanzo ci consegna è proprio questa: una cartina immaginaria degli Stati Uniti, a dorso della quale gli ambulanti disegnavano percorsi dal Massachussets alla California, dal Nevada alla Georgia, passando per il Midwest. Ambulanti che zigzagavano incessanti come api operaie, sulla schiena la kasha, sulla bocca le notizie di cui venivano a conoscenza durante gli spostamenti, nel petto la voglia di farcela e aiutare i cari rimasti a casa (e anche quella, tutta umana e comprensibile, di tornare al paese come dei gran signori). E che davano senso e unità ad un Paese ancora da inventare.
Questa vita faticosa Marta l’aveva condotta per qualche tempo, incontrando sul suo cammino errante tantissimi siriani. Finché, stanca del tanto peregrinare, si era stabilita a Philadelphia e, aiutata da un vecchio amico siriano, aveva comincia a costruirsi una vita da commerciante e imprenditrice, aiutando i nuovi ambulanti che a frotte sbarcavano davanti la sua bottega di vestiti e stoffe. Il resto, è una storia da leggere tutta d’un fiato. 
È davvero difficile non immedesimarsi nella vita di questa eroina. Poche amicizie, ma di quelle che valgono, due grandi amori, entrambi di passaggio, il personaggio di Marta si staglia netto, in questa epopea siro-americana, e diventa un esempio da seguire per tutti. Silenziosa e di poche parole (le parti del libro in cui Jaber riporta frammenti di suoi discorsi diretti si contano sulle dita di una mano, il romanzo è spesso un lungo racconto indiretto), bellissima ed elegante, di lei Rabee Jaber ci consegna il ritratto di una donne incredibile, la cui vita ella ha saputo plasmare nonostante le difficoltà, le guerre e le tragedie della vita di tutti i giorni. Attorno, Jaber le tesse una trama fittissima e solida di personaggi più o meno secondari, le cui vicende sono spesso protagoniste dei tantissimi capitoletti (che non durano più di 3 pagine) che compongono il romanzo. Sono le storie dei tanti ambulanti e amici di Marta, storie tragicomiche dei primi migranti d’America.
Si cade, ma alla fine ci si rialza, sempre. 

L'autrice dell'articolo plaude alla traduzione a cura di Elisabetta Bartuli e Hamza Bahri, che "scivola senza intoppi grazie all’uso di un lessico ricercato ma di facile fruizione".
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Rabee Jaber è nato in Libano nel 1972. Finalista all’Arabic Booker del 2010 proprio con questo romanzo, vincitore nel 2012 con "I drusi di Belgrado"; semi-finalista quest’anno con "Gli uccelli dell’Holiday Inn", Jaber è uno degli autori contemporanei più prolifici del mondo arabo.

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