lunedì 18 febbraio 2013

Editoriaraba - Top ten arabista, un viaggio tra Egitto, Libano e Palestina


Il viaggio letterario di oggi su Editoriaraba è a cura di Silvia Marchionne e ci porta tra le pagine della narrativa egiziana e palestinese  con una breve incursione in Libano.

"L’amore in esilio", Baha Taher (Ilisso, 2008; tradotto dall’arabo di P. Viviani)
Un romanzo attualissimo che rispecchia la vita di tanti intellettuali arabi in Europa. Protagonista del romanzo è un giornalista egiziano di fede nasseriana che lascia il proprio paese per l’Europa. Lontano da casa osserva il suo passato, riflette sulle disillusioni e sull’esilio. Tuttavia, ecco che l’inattesa storia d’amore con una giovane donna austriaca sembra donare di nuovo vigore e entusiasmo ad una vita in esilio.

"Taxi. Le strade del Cairo si raccontano", Khaled Al-Khamissi (Il Sirente, 2008: tradotto dall’arabo di E. Pagano)
Non si tratta di un vero e proprio romanzo, bensì una sorta di diario di viaggio e, insieme, di reportage, scritto quasi tutto in dialetto egiziano, e incentrato su un abituale cliente dei taxi della capitale egiziana, che poi è lo stesso Khaled Al-Khamissi. La realtà, spesse volte molto dura, della caotica capitale egiziana ci viene raccontata degli autisti di taxi che quotidianamente l’autore è solito prendere per spostarsi al Cairo. 

"Firdaus. Storia di una donna egiziana", Nawal El Sadawy (Giunti, 2001; tradotto dall’inglese da S. Federici)
Probabilmente l’opera più significativa dell’autrice che narra la storia dell’incontro, nella prigione femminile di Qanàtir, tra l’autrice, in qualità di medico psichiatra, e una donna condannata all’impiccagione dopo aver ucciso un uomo. Pagina dopo pagina, si scoprono i tragici retroscena della vita di Firdaus, fiera e intrepida anche al cospetto della morte, e i profondi motivi che l’hanno portata a commettere il crimine di cui si è macchiata. Da leggere per capire la straordinaria forza e coraggio della scrittrice Nawal El Sadawy.

"Ritorno a Haifa", Ghassan Kanafani (Edizioni Lavoro, 2003; a cura di I. Camera d’Afflitto)
Non poteva mancare un’opera di Ghassan Kanafani nella mia top ten: il pubblico italiano lo conosce attraverso il suo romanzo “Uomini sotto il sole”. Qui si presentano due romanzi brevi. Il primo narra la vicenda di due genitori che fanno un viaggio a Haifa per rivedere la città e la casa dove sono vissuti fino a vent’anni prima. Nel secondo l’autore evoca l’indimenticabile figura di Umm Saad, la madre di Saad. Lo trovo singolare perché per la prima volta nella letteratura araba uno scrittore palestinese ci parla di due diaspore: quella ebraica e quella palestinese, entrambi latrici di sofferenza per questi due popoli. Umanità e forza emotiva stanno alla base di questo toccante racconto di Ghassan Kanafani. Che per fortuna ha conosciuto anche la traduzione di molte altre opere grazie alla traduttrice Federica Pistono che per Cicorivolta ha tradotto “L’altra cosa (Chi ha ucciso Layla al-Hayk?), “Uomini e fucili” e “L’innamorato”. 

"Ho visto Ramallah", Murid al-Barghuti (Ilisso, 2005; tradotto dall’arabo da M. Ruocco)
Anche questo libro mi ha accompagnato durante lo studio, scrive l'autrice, ed in modo particolare durante lo studio della questione palestinese e che io considero una pietra miliare della letteratura palestinese. Murid al-Barghuti, poeta e scrittore palestinese scrive questo romanzo autobiografico grazie al quale gli è stato conferito il premio Mahfuz: quando scoppiò la Guerra dei Sei Giorni, si trovava in Egitto, dove stava ultimando gli studi universitari; alla fine della guerra, non poté rientrare in patria, ma vi poté far ritorno solo dopo gli accordi di Oslo (1993), nel 1996. Questo evento ha ispirato il suo Ho visto Ramallah (1997). 
… Dicevo ai miei amici egiziani che la Palestina è verde, coperta di alberi, cespugli e fiori selvatici. Cosa sono queste colline spoglie e aride? Mentivo ai miei amici? Oppure Israele ha trasformato la via verso il ponte in una strada desolata che non ricordo di aver mai visto durante la mia infanzia?…

"La casa di pietra", Antony Shadid (Add editore, 2012; traduzione dall’inglese di S. Rega)
Uno degli ultimi libri di letteratura araba contemporanea che ho letto. Anzi il penultimo. “La casa di pietra” scritto dallo storico giornalista, Anthony Shadid, (purtroppo scomparso prematuramente in Siria all’età di 43 anni), è il testamento del suo personale viaggio alla ricerca della propria identità. Shadid ci accompagna nella riscoperta delle sue radici, partendo dalla casa di un suo antenato, Isber, nel villaggio natale della famiglia Shadid, Marjayoun. La casa di pietra, attraverso un incessante ricorso alla terminologia araba, è quella di Isber, che rimane per Shadid l’unica certezza, perché:
“Nessuno ha sofferto la sventura di restare solo. Questa gente, la mia gente, ha vissuto insieme fin dal primo momento. La comunità è tutto. La casa è tutto. Se hai perso te stesso”.

"Palazzo Yacoubian", Alaa al Aswany (Feltrinelli, 2006; traduzione dall’arabo di B. Longhi)
Lo considero, a mio parere, il libro precursore della “primavera egiziana”: la saga degli abitanti di un palazzo costruito al Cairo negli anni trenta, ci racconta di storie parallele, vite che scorrono una accanto all’altra senza mai incrociarsi. Un palazzo che contiene in sé tutto ciò che l’Egitto era ed è diventato. Ogni personaggio interpreta una sfaccettatura del moderno Egitto dove la corruzione politica, la ricchezza di pochi e l’ipocrisia religiosa sono alleati naturali dell’arroganza dei potenti, dove l’idealismo giovanile si trasforma troppo rapidamente in estremismo e dove ancora prevale un’immagine antiquata della società. Oltre ai numerosi protagonisti, in questo romanzo campeggia la denuncia della società e della politica egiziana, una denuncia come sappiamo particolarmente cara ad al-Aswani. Consiglio di leggerlo in lingua araba per apprezzare il linguaggio e lo stile dello scrittore.

"Sharon e mia suocera", Suad Amiry (Feltrinelli, 2003; traduzione dall’inglese di M. Nadotti)
Uno dei libri più belli che abbia letto sulla questione palestinese: un “diario di guerra” che pone al centro delle sue attenzioni l’ingombrante e svagata suocera Umm Salim, che resiste alla brutalità dell’occupazione militare con abitudini da tempi di pace, orari, buone maniere. Attorno a lei un “balletto indiavolato” di vicini di casa, parenti, amici, funzionari israeliani, spie e collaboratori, cani, muri in costruzione, paesaggi splendidi e violati, checkpoint e soldati. Con tono lieve e tragicomico, Suad Amiry ci porta a scoprire i piccoli e grandi contrattempi del vivere nel devastato scenario palestinese. 

"Ogni mattina a Jenin", Susan Abulhawa (Feltrinelli, 2011; traduzione dall’inglese di S. Rota Sperti)
A concludere la bibliografia della letteratura palestinese che preferisco ecco questo bellissimo ma difficile romanzo. Non difficile per il suo lessico, ma per i suoi contenuti: forti, duri, amari. Una storia commovente: una saga di una famiglia palestinese, dal nonno Yehya alla nipotina Amal e poi a sua figlia Sara, quando Amal ormai è una donna adulta. Dal paesino palestinese di ‘Ain Hod, vicino a Haifa, al campo profughi di Jenin, dove la famiglia di Yehya e i loro compaesani sono costretti a rifugiarsi quando vengono cacciati con la forza dagli ebrei israeliani. Un romanzo che ho apprezzato ancora di più e che ho riletto durante il mio soggiorno a Gerusalemme, per cercare quanto meno di comprendere un dolore che difficilmente si riuscirebbe a “sentire” se non toccando con mano la realtà palestinese.

"Come fili di seta," Rabiee Jabeer (Feltrinelli, 2011; traduzione dall’arabo di E. Bartuli con H. Bahri)
Subito di ritorno dal mio viaggio in Libano, ho comprato l’ultimo romanzo di Rabiee Jabeer: narra le vicende di Marta, una donna siriana che emigra nel Nuovo Mondo alla ricerca del suo amore perduto, a sua volta emigrato in cerca di fortuna. In Siria il suo nome era Marta. Negli Stati Uniti sarebbe diventata Martha. Joe Haddad, marito di Marta, si era dimenticato di avere lasciato una giovanissima moglie in Siria e viveva con un’altra donna, un’americana che possedeva una fattoria vicino a New Orleans, e aveva smesso di scrivere lettere a Marta. E così Marta aveva ipotecato il frutteto, comperato il biglietto ed era partita verso il Nuovo Mondo in cerca dell’uomo che amava.C’è una parola che ritorna di frequente nel romanzo: la kasha, una sorta di piccolo baule che i venditori ambulanti si caricavano con cinghie sulla schiena, pieno della mercanzia che andavano in giro a vendere, nei luoghi più sperduti, nelle fattorie più fuori mano. La storia di Martha è la storia delle speranze, dei dolori e delle nostalgie degli immigrati. L’America è un paese di immigrati e ne abbiamo lette tante, di queste storie. All’inizio incerta, spaventata e disperata affronta i grattacieli e la metropolitana newyorkese. Decisa ed appassionata costruisce la sua vita giorno dopo giorno. Ne risulta un affresco dell’America visto dalla parte dei milioni di emigranti che l’hanno costruita ma anche un inno alla vita. La storia di Martha rimane impressa per lei stessa, protagonista assoluta e indimenticabile.
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Silvia Marchionne è laureata in Lingua Araba e Studi Arabo-Islamici presso L’Orientale di Napoli e con un Master di II Livello in Cooperazione allo Sviluppo conseguito allo IUSS di Pavia; si occupa di Medio Oriente, di Islam e di Cooperazione Internazionale in questa specifica area geografica. Sempre in viaggio fra Italia, Egitto e Palestina, segue con costante interesse le vicende di quella regione, con un forte interesse per la società civile, il ruolo delle ONG nella regione mediterranea, i diritti umani e le questione di genere. Ha lavorato a Marsiglia come consulente per la Banca Mondiale, occupandosi di governance e quality assurance dell’istruzione superiore della regione MENA; oggi è responsabile di comunicazione e networking per UNIMED – Unione delle Università del Mediterraneo e vive a Roma.

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