mercoledì 30 ottobre 2013

Editoriaraba - La letteratura palestinese, un racconto collettivo come unica “Storia possibile”


Su Editoriaraba un estratto da un saggio sulla letteratura palestinese inviato da Silvia Moresi, collaboratrice del blog, che lo aveva scritto nel 2010 in occasione di un concorso istituito dall’associazione “Questioni di frontiera” e con cui aveva vinto. Il saggio intero è scaricabile da un link sul blog di Editoriaraba.

 di Silvia Moresi

"Chi impone il proprio racconto eredita la Terra del racconto", così dichiarava in un’intervista Mahmud Darwish, uno dei più grandi poeti palestinesi.

Per un popolo senza nazione come i palestinesi, la letteratura, cioè le pagine di scrittori e poeti che narrando eventi personali (e non) ricompongono un racconto collettivo, è l’unica storia possibile. Una contro-narrazione, in cui i colonizzati non siano più oggetti della Storia ma ne diventino soggetti, è l’unico mezzo per riaffermare la propria esistenza, come individui e come popolo.

La letteratura palestinese, come è ovvio, è fortemente influenzata dagli avvenimenti che hanno sconvolto e che ancora sconvolgono la Palestina. Gli scrittori contemporanei si confrontano, anche attualmente, con le tematiche dell’identità, della cancellazione della memoria e dello sradicamento, facendo, appunto, dei loro romanzi e delle loro poesie strumenti essenziali per il doloroso percorso di riemersione esistenziale di questo popolo.

Queste tematiche sono affrontate spesso in maniera molto diversa dagli scrittori dei Territori, d’Israele o da quelli in esilio che vivono il loro essere palestinesi in maniera sostanzialmente differente.

Il concetto di identità, ad esempio, è descritto nelle pagine degli scrittori arabi d’Israele come un qualcosa di schizofrenico. Questa comunità esiliata nella sua stessa Terra, non ha un luogo in cui sognare di poter tornare. Il movimento sionista, infatti, con la distruzione reale e concreta della Palestina, ma anche con la distruzione della sua narrazione storica e simbolica, cercò di rendere questo territorio un blank space, una pagina bianca su cui poter ri-scrivere una nuova storia, attraverso il processo di rebraizzazione della terra.

Fiumi, città e villaggi furono rinominati secondo nomi biblici e persero i loro nomi arabi, tutto fu reso irriconoscibile per i palestinesi rimasti che, di colpo, diventarono una comunità che non era al suo posto. Insomma, una sradicamento storico e culturale per determinare un oblio identitario. Emile Habibi, forse il più famoso scrittore arabo israeliano, così scriveva:

La mia patria? Io mi sento come un profugo in un paese straniero. Voi sognate il ritorno e vivete questo sogno, ma io, dove ritorno?

(L’amore nel mio cuore, Emile Habibi, in Palestina. Tre racconti, a cura di Isabella Camera D’afflitto, Ripostes 1984).

Sayed Kashua, scrittore arabo israeliano contemporaneo che scrive in ebraico, racconta in maniera perfetta nei suoi due romanzi, Arabi Danzanti e E fu mattina, tutta la precarietà di un’identità in bilico tra due culture, una a cui si appartiene e l’altra, a cui ci si vorrebbe assimilare per sopravvivere, che ti rifiuta:

Sembro più israeliano di un israeliano calzato e vestito. Sono sempre contento quando gli ebrei me lo fanno notare. […] Un tempo si capiva che ero arabo. Mi riconoscevano. [...] Non mi ero mai sentito così umiliato. Fu per quello che mi trasformai in un esperto di simulazione di identità.

(in Arabi danzanti, Sayed Kashua, Guanda 2002).

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