martedì 13 maggio 2014

Editoriaraba - Jabbour Douaihy: “Il Libano è un paese da costruire. Quasi tutte le mattine”

Chiara Comitini ha incontrato lo scrittore libanese Jabbour Douaihy ad Abu Dhabi, dove è stato ospite della 24° edizione della Fiera internazionale del libro. L’intervista che gli ha fatto è stata realizzata per la rivista ufficiale della Fiera, lo Show Daily, e l’articolo che segue è stato pubblicato in inglese, in una versione leggermente rivista, sul numero di venerdì 2 maggio.
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Il suo ultimo libro, Hay el-Amerkane (Dar al-Saqi, Beirut 2014), è ambientato in un quartiere disagiato dell’antica città di Tripoli, nel nord del Libano, ma questa volta lo scrittore libanese Jabbour Douaihy (Zgharta, 1949) non parla della guerra civile libanese come nel suo ultimo libro tradotto in italiano, San Giorgio guardava altrove*, ma del presente.
Hay el-Amerkane è un libro sul Libano contemporaneo ma anche un romanzo su Tripoli, la città in cui vive e in cui l’estremismo religioso è aumentato drasticamente negli ultimi anni.
“Parlare del presente non è stata una cosa premeditata: mi sono imbattuto in questo tema partendo da un luogo più che da un tempo, cioè da un quartiere di Tripoli. Un quartiere degradato, costruito con materiali di fortuna, che però si trova di fronte alla cittadella storica, che sta lì da secoli. E mi sono detto che qualcosa bisognava scriverci su questo contrasto e su questo quartiere, afflitto da miseria, esclusione sociale, dei giovani soprattutto, e assenza di ideologie alternative al jihadismo. E per scrivere del fenomeno dei giovani reclutati dal jihadismo è stato giocoforza parlare della contemporaneità”.
Non è la prima volta che questo autore, arrivato finalista per ben due volte al premio per la narrativa araba, ambienta i suoi romanzi nel Libano del nord, un luogo in cui “tutte le diverse anime del Libano si incontrano e si scontrano”, come ha detto qualche anno fa a Torino, ospite del circolo dei lettori.
Pioggia di giugno, pubblicato nel 2008 dalla casa editrice Dar al-Nahar di Beirut è ambientato nel villaggio di Barqa, tra le montagne libanesi, nel 1957: la vicenda trae spunto da un massacro avvenuto durante un funerale, che porta allo scoppio di una faida tra due clan rivali entrambi cristiani. Questo romanzo è stato il più difficile che Douaihy abbia mai scritto:
“E’ un libro disarticolato, pieno di discorsi, personaggi, punti di vista. Mentre la scrivevo, sentivo che questa storia mi sfuggiva da tutte le parti e mi chiedevo come sarei riuscita a rimetterla insieme, pezzo dopo pezzo. Ma più mi sfuggiva, più ero preso dalla perversione di renderla ancora più eclettica”.
A differenza di Pioggia di giugno, San Giorgio guardava altrove, pubblicato nel 2010, è ambientato a Beirut e deve il suo titolo nella versione italiana al santo patrono di Beirut, San Giorgio, che però nel libro si è distratto e ha lasciato che la tragedia si compisse. Nizam, il protagonista, è un giovane nato in una famiglia sunnita con problemi economici che viene allevato da una ricca famiglia cristiano-maronita che lo tratta come un figlio.
La tragedia di Nizam si compie nel momento in cui scoppia la guerra civile libanese (1975-1990), che lo trova intrappolato in una doppia identità confessionale che ne determinerà la rovina. Nonostante sia stato ampliamente interpretato come un’allegoria del Libano e della schizofrenia di questo piccolo Paese che può contare 17 diverse confessioni religiose al suo interno, il personaggio di Nizam è ispirato ad una persona realmente esistita, un parente alla lontana di Douaihy: “Dopo la sua morte mi sono imbattuto per caso nel suo annuncio mortuario, attaccato ad un muro. E mi sono accorto che in realtà erano due gli annunci, uno cristiano e l’altro musulmano. Ho deciso quindi che ne avrei tirato fuori una storia. Ma scrivere questo romanzo non è stato facile, dovevo soprattutto stare attento a non cadere nella trappola dell’ideologia”.
La guerra civile libanese come tema narrativo è stato largamente esplorato da molti scrittori libanesi, sin quasi dal suo scoppio. Scrittori come Hoda Barakat, Elias Khoury (che scrive il suo Facce bianche nel 1981, nel pieno del conflitto) e Rabee Jaber nei loro romanzi hanno cercato di capire ed eplorare le origini della violenza di una guerra che ha insanguinato il Libano per quasi 15 anni.
“Proprio come i palestinesi, anche gli scrittori libanesi sono prigionieri di questo argomento. Ed è molto difficile riuscire a uscirne, lo stesso Darwish ci ha provato, ma è difficile. Come tutti i soggetti, anche questo della guerra civile è un tema esplorabile all’infinito perchè accompagna la nostra vita, è inseparabile da noi”, ha commentato laconicamente Douaihy.
Nei loro romanzi, molti degli scrittori libanesi hanno utilizzato il paradosso, il grottesco, la tragedia che si trasforma in farsa o in follia per parlare del conflitto:
“I libanesi hanno passato momenti terribili durante la guerra civile ed è facile immaginare che gli scrittori li abbiano in qualche modo interpretati con l’uso dell’assurdo e dell’ironia. Questo stato di conflittualità latente è diventato un po’ il nostro modo di vivere. È il nostro modo di sopravvivere. Perché il Libano è un paese in divenire, da costruire. Quasi tutte le mattine”.
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* Pioggia di giugno e San Giorgio guardava altrove sono stati entrambi tradotti dall’arabo in italiano da Elisabetta Bartuli e sono stati pubblicati da Feltrinelli.

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