venerdì 17 aprile 2015

Sonya Orfalian, scrittura e teatro per la memoria. La storia di una donna che è una storia armena

Ilaria Guidantoni, 12 Aprile 2015

Il centenario del genocidio armeno che si sta avvicinando è l’occasione per ripensare la ricchezza culturale di questo popolo sconosciuto e dimenticato. Cent’anni fa, infatti, il 24 aprile 1915 aveva inizio uno dei più feroci genocidi che la storia moderna ricordi dopo, non in ordine cronologico, lo sterminio degli ebrei della Seconda Guerra Mondiale. Il genocidio, o il Metz Yeghérn, cioè il Grande Male come viene definito, riguarda il popolo armeno. Tuttavia già negli ultimi anni dell’Ottocento da parte dei Turchi, in verità, era iniziata la persecuzione degli Armeni, ultimo baluardo del Cristianesimo alle porte orientali del mondo. Una cultura ricca, in gran parte orale, difficile da tramandare soprattutto dopo la diaspora che la scrittrice Sonya Orfalian sta recuperando. Dopo aver recensito su queste pagine “A cavallo del vento”, una raccolta di fiabe armene appunto, siamo tornati ad incontrarla. Il racconto della sua storia e del suo impegno sembrano una novella dove i confini tra vero e autentico tracciano la fantasia.

Le abbiamo chiesto la sua storia e il significato di essere armeni oggi e in particolare qual è il suo impegno in vista di un anniversario che non basta di per sé a risolvere il problema della memoria ma può essere un’occasione preziosa anche per chi non conosce il mondo e la storia armeni.

Se ti chiedessi da dove vieni cosa risponderesti?
«Sono armena. La mia è una tipica famiglia armena della diaspora. Mio padre è nato a Gerusalemme nella grande e antica comunità armena di Palestina. I suoi genitori sono miracolosamente scampati al genocidio che nel 1915 i Turchi hanno messo in atto nei confronti del popolo armeno e si sono ritrovati a vivere a Gerusalemme. Mio nonno materno invece fu deportato dal sultano Abdul Hamid in Libia dopo i grandi massacri del 1895 perpetrati dal sultano nei confronti della popolazione armena di Urfa, oggi in Turchia. La Libia dell’epoca era una colonia ottomana, e solo quando sono arrivati gli italiani mio nonno venne liberato. Ecco questa è la nostra diaspora: la terra persa per sempre ci ha portato forzatamente a viaggiare e muoverci di città in città, di paese in paese in cerca di sicurezza. Dall’epoca del genocidio che abbiamo subito per mano dei turchi che ci hanno tolto alla nostra terra l’Armenia, siamo diventati in gran parte un popolo errante.»

Mi piacerebbe capire il senso di appartenenza quando si è ontologicamente profughi.
«Essere armeni nati in diaspora, da un lato ci pone di fronte a una porta chiusa, quella della ritorno alla terra dei padri, ma dall’altro ce ne apre un’infinità: possiamo comprendere meglio e anche condividere i destini, spesso ingiusti, di altri popoli: palestinesi, libici, turchi, curdi, circassi, greci. Vivere fuori dalla propria terra e spostarsi di continuo da un paese a un altro a causa di vicende storiche che accompagnano la vita di una famiglia come la mia, porta con sé un insieme di nostalgie. Paesi e luoghi sono tutti belli, in uno nasci e diventa il tuo paese natale; in un altro è nato uno dei tuoi genitori e diventa parte di te; in un altro ancora scopri l’amore e hai dei ricordi per la vita; altrove hai un amica d’infanzia, e da un altro infine - pur detestando certe realtà - sei comunque affascinato. Insomma, si vive una condizione diversa da quella degli altri: non solo si è stranieri, ma si stabilisce un rapporto diverso con la realtà, col cielo, con i profumi, con le cose che sembrano più banali. Tanti sentimenti si sovrappongono: il primo è la nostalgia che come dice Eva Hoffman "si cristallizza attorno alle immagini come ambra". Non sono tornata più in Libia fisicamente, ma ci torno continuamente col pensiero di giorno e con i sogni di notte. In Libia, dato che ero figlia di un armeno, (Mio padre era nato a Gerusalemme, nella antica comunità armena di Gerusalemme.) titolare di un documento di Profugo palestinese rifugiato in Libia non avevo diritto alla cittadinanza libica, questo perché nei paesi arabi non si naturalizzano i figli dei palestinesi per tenere alto il numero dei cittadini palestinesi. 
Però per questioni burocratiche interne, ero titolare di un lasciapassare libico, che serviva per viaggiare e per risiedere in Libia come straniera, pur essendo nata in quel Paese. Quel documento veniva rinnovato ogni anno, come fanno gli stranieri col permesso di soggiorno.»

L'intervista integrale su Saltinaria.it

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