Scritto da Ilaria Guidantoni Domenica, 05 Luglio 2015
Testi di Andrea Villani
Disegni di Riccardo Cecchetti
Con un saluto di Gianluca Morozzi
Il sapore di una conversazione rubata tra due amici al bar, abbozzata, schizzata e tremendamente viva. Un accenno e un’istantanea di vita vissuta. Questo il sapore della graphic novel di Andrea Villani che in M’hanno detto racconta il mondo dei bar, non dei caffè, con una sua poesia presa dalla strada, da quell’indolente conversare e bere, come elemento inscindibile della vita di questo luogo che tuttora resta per uomini che si raccontano di calcio, di donne e di storie qualunque. E' un morso di vita, vera e autentica che sta sempre più scomparendo con l’Italia dei non luogo, con quell’ammiccare di locali patinati tutti uguali senza odore.
Il bar in Italia è un’istituzione antica come il caffè lo è per tutto il mediterraneo del nord e del sud, dove
soprattutto nella provincia diventa il vero luogo di aggregazione, evasione e rifugio, dove il calcio è uno dei protagonisti. Nel saluto introduttivo, ché introduzione non si può chiamare, Gianluca Morozzi dice che il fumetto è considerato erroneamente un genere minore mentre unisce due arti, quella della scrittura e quella del disegno. In effetti i testi di Andrea Villani vivono e si animano attraverso i disegni di Riccardo Cecchetti, quasi senza distinguersi in certe pagine, dove uno stile vicino al fotorealismo unito all’idea del collage, di certi quadri di Mimmo Rotella, salda insieme l’anima pop e quella del reportage, dell’immagine catturata in presa diretta e racconta la doppia anima del libretto.
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martedì 7 luglio 2015
“Conoscevo un angelo” di Guido Mattioni
Scritto da Ilaria Guidantoni Sabato, 04 Luglio 2015
Dopo il grande successo di Ascoltavo le maree (Ink, 2013 – quattro edizioni, migliaia di copie vendute, adottato nei corsi di Italiano alla Georgia State University), e l’uscita di Soltanto il cielo non ha confini (Ink, 2014) Guido Mattioni torna in libreria con un romanzo ancora una volta “americano”, dedicato al grande popolo della strada, alle persone che vivono in movimento da uno stato all’altro.
Il libro più maturo di Guido Mattioni, che segna l’uscita dalla propria storia, dal proprio mestiere, per raccontare il mondo attraverso lo sguardo degli altri. L’America della provincia, carnale e ingenua ad un tempo, presa in diretta con parole semplici, un linguaggio fluido, quasi corrente eppure punte di poesie, che ricordano lo stile inconfondibile della Beat generation. Narrazione allo stato puro.
La realtà supera nella fantasia e nella provincia americana tutto può succedere. Basta fermarsi e guardare, ascoltare; anzi saper guardare e ascoltare. La strada inizierà a raccontarvi le storie della “sua” gente: imprevedibili e bizzarre, piene di curve e scritte sotto dettatura del caso. Come quella di Howard Johnson, figlio di piazzisti che girano l’America su una casa mobile. Il protagonista, che sulla strada è stato concepito ed è cresciuto, ha studiato e giocato, ha amato ed è invecchiato, di storie così ne conosce mille. E’ voce narrante, prospettiva critica e protagonista ad un tempo, in presa diretta e poi attraverso i propri ricordi quando i genitori muoiono in un banale e fatale incidente per l’attraversamento di un cervo.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Dopo il grande successo di Ascoltavo le maree (Ink, 2013 – quattro edizioni, migliaia di copie vendute, adottato nei corsi di Italiano alla Georgia State University), e l’uscita di Soltanto il cielo non ha confini (Ink, 2014) Guido Mattioni torna in libreria con un romanzo ancora una volta “americano”, dedicato al grande popolo della strada, alle persone che vivono in movimento da uno stato all’altro.
Il libro più maturo di Guido Mattioni, che segna l’uscita dalla propria storia, dal proprio mestiere, per raccontare il mondo attraverso lo sguardo degli altri. L’America della provincia, carnale e ingenua ad un tempo, presa in diretta con parole semplici, un linguaggio fluido, quasi corrente eppure punte di poesie, che ricordano lo stile inconfondibile della Beat generation. Narrazione allo stato puro.
La realtà supera nella fantasia e nella provincia americana tutto può succedere. Basta fermarsi e guardare, ascoltare; anzi saper guardare e ascoltare. La strada inizierà a raccontarvi le storie della “sua” gente: imprevedibili e bizzarre, piene di curve e scritte sotto dettatura del caso. Come quella di Howard Johnson, figlio di piazzisti che girano l’America su una casa mobile. Il protagonista, che sulla strada è stato concepito ed è cresciuto, ha studiato e giocato, ha amato ed è invecchiato, di storie così ne conosce mille. E’ voce narrante, prospettiva critica e protagonista ad un tempo, in presa diretta e poi attraverso i propri ricordi quando i genitori muoiono in un banale e fatale incidente per l’attraversamento di un cervo.
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Focette - Marina di Pietrasanta "Corrispondenze mediterranee, viaggio nel sale e nel vento" 3 luglio 2015
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Presentazione "Corrispondenze Mediterranee" 3 luglio 2015 a L'ape Arianna, Focette - Marina di Pietrasanta Foto di Fiorenzo Sernacchioli |
martedì 30 giugno 2015
Da Piacenza, al Blues festival Dal Mississippi al Po sabato 27 giugno 2015
Con il direttore Seba Pezzani |
A sinistra la giornalista corrispondente da Roma del quotidiano el-Watan, Nacéra Benali , il romanziere, drammaturgo e compositore jazz, Aziz Chouaki, e il musicista maliano tamachek, Faris Amine |
sabato 20 giugno 2015
Sabato 27 giugno "Algeria: un ponte tra i travagli dell’Europa e le angosce del nuovo Islam" - Festival Dal Mississippi al Po Piacenza
Sabato 27 Giugno 2015
DAL MISSISSIPPI AL PO
FESTIVAL INTERNAZIONALE A PIACENZA
PORTICI DI PALAZZO GOTICO
PIAZZA CAVALLI
ore 21,00: Incontro Letterario Internazionale
Algeria: un ponte tra i travagli dell’Europa e le angosce del nuovo Islam
Ilaria Guidantoni – Giornalista e scrittrice, frequentatrice e conoscitrice del mondo
arabo (Albeggi Edizioni)
Marsiglia Algeri, viaggio al chiaro di luna
Aziz Chouaki – Autore berbero dello straordinario La stella di Algeri, penna
scomoda e narratore autentico (E/O)
Nacera Benali – Giornalista e medico algerina, residente da anni in Italia,
osservatrice lucida della situazione nel suo paese d’origine e dello scontro tra
mondo arabo e occidentale (Sperling & Kupfer)
Faris Amine – Musicista Tuareg maliano
ore 22,00: Live Music, Palco Internazionale
DAL MISSISSIPPI AL PO
FESTIVAL INTERNAZIONALE A PIACENZA
PORTICI DI PALAZZO GOTICO
PIAZZA CAVALLI
ore 21,00: Incontro Letterario Internazionale
Algeria: un ponte tra i travagli dell’Europa e le angosce del nuovo Islam
Ilaria Guidantoni – Giornalista e scrittrice, frequentatrice e conoscitrice del mondo
arabo (Albeggi Edizioni)
Marsiglia Algeri, viaggio al chiaro di luna
Aziz Chouaki – Autore berbero dello straordinario La stella di Algeri, penna
scomoda e narratore autentico (E/O)
Nacera Benali – Giornalista e medico algerina, residente da anni in Italia,
osservatrice lucida della situazione nel suo paese d’origine e dello scontro tra
mondo arabo e occidentale (Sperling & Kupfer)
Faris Amine – Musicista Tuareg maliano
ore 22,00: Live Music, Palco Internazionale
lunedì 15 giugno 2015
“La triomphante” di Teresa Cremisi
Ilaria Guidantoni Domenica, 14 Giugno 2015
La Triomphante, primo romanzo di Teresa Cremisi, la più francese delle editrici italiane – proprietaria di Flammarion (editrice tra l’altro di Michel Houellebecq) che si è dimessa ai primi di giugno dalle sue funzioni - è la sua biografia scritta con uno stile fluido e allo stesso tempo prezioso, ricco, lirico e pieno di suggestione che risente l’esperienza di lettrice colta e attenta al sentire mediterraneo. D’altronde il suo viaggio parte da Alessandria d’Egitto, attraversa più volte il mare per arrivare in Europa, nella Francia mediterranea e in Italia; fino a stabilirsi a Milano che vive da adolescente e giovane, lasciando le violenze della sua patria per incontrare poi le rivolte del ’68.
E ancora il suo viaggio proseguirà in Francia per seguire un amore, il marito italiano Giacomo, con una viaggio di ritorno in Egitto che sarà solo un passaggio. Un girovagare dell’anima e una metafora ben illustrata sul tema della lingua e della parola, quale visione del mondo. Ogni volta cambiare parametro, stile di vita, un processo non scontato stimolante quanto faticoso. Un viaggio con tante gioie che lascia alla fine la malinconia di aver lasciato poca traccia di sé, una considerazione sull’essere effimero della vita eppure la consapevolezza almeno di aver guardato a lungo il mondo e di essersene certo nutrita a giudicare dal figlio di carta che ci lascia. In effetti il tema dei figli non viene mai fuori, nemmeno per sbaglio, e ci si chiede perché non ne parli almeno con il lettore, lei così legata ai propri genitori anche se poi scopre tardivamente una verità amara e parallela a quella dell’uomo che sposerà; donna sposata che riflette su tanti aspetti della vita...ma tace sulla vita stessa. Le ragioni del titolo si capiranno solo alla fine, la Triomphante è il nome di una corvetta, di un’imbarcazione da guerra del XIX secolo, ritratta e amata da un pittore che incontra sui cinquant’anni in un momento difficile, che come le dice un’amica segna la fine della giovinezza mentre almeno i sessant’anni sono la giovinezza della vecchiaia.
La recensione integrale su Saltinaria.it
La Triomphante, primo romanzo di Teresa Cremisi, la più francese delle editrici italiane – proprietaria di Flammarion (editrice tra l’altro di Michel Houellebecq) che si è dimessa ai primi di giugno dalle sue funzioni - è la sua biografia scritta con uno stile fluido e allo stesso tempo prezioso, ricco, lirico e pieno di suggestione che risente l’esperienza di lettrice colta e attenta al sentire mediterraneo. D’altronde il suo viaggio parte da Alessandria d’Egitto, attraversa più volte il mare per arrivare in Europa, nella Francia mediterranea e in Italia; fino a stabilirsi a Milano che vive da adolescente e giovane, lasciando le violenze della sua patria per incontrare poi le rivolte del ’68.
E ancora il suo viaggio proseguirà in Francia per seguire un amore, il marito italiano Giacomo, con una viaggio di ritorno in Egitto che sarà solo un passaggio. Un girovagare dell’anima e una metafora ben illustrata sul tema della lingua e della parola, quale visione del mondo. Ogni volta cambiare parametro, stile di vita, un processo non scontato stimolante quanto faticoso. Un viaggio con tante gioie che lascia alla fine la malinconia di aver lasciato poca traccia di sé, una considerazione sull’essere effimero della vita eppure la consapevolezza almeno di aver guardato a lungo il mondo e di essersene certo nutrita a giudicare dal figlio di carta che ci lascia. In effetti il tema dei figli non viene mai fuori, nemmeno per sbaglio, e ci si chiede perché non ne parli almeno con il lettore, lei così legata ai propri genitori anche se poi scopre tardivamente una verità amara e parallela a quella dell’uomo che sposerà; donna sposata che riflette su tanti aspetti della vita...ma tace sulla vita stessa. Le ragioni del titolo si capiranno solo alla fine, la Triomphante è il nome di una corvetta, di un’imbarcazione da guerra del XIX secolo, ritratta e amata da un pittore che incontra sui cinquant’anni in un momento difficile, che come le dice un’amica segna la fine della giovinezza mentre almeno i sessant’anni sono la giovinezza della vecchiaia.
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“Dora Bruder” di Patrick Modiano
Ilaria Guidantoni Domenica, 14 Giugno 2015
Ancora un romanzo-verità per Patrick Modiano, narratore autentico delle vicende storiche umane con l’attenzione sul dolore e sull’orrore. Un testo breve, scarno, essenziale, uno stile nel segno più classico della prosa francese contemporanea che intreccia la propria autobiografia (recensita in questo spazio, Un pedrigree) con una vicenda di cronaca avvenuta agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso ma che, proprio perché misteriosa, resta sospesa in una narrazione da romanzo.
Nel libro e con questo lavoro Modiano testimonia il dovere di non dimenticare l’orrore negli anni della Guerra e del razzismo e ancora la forza della scrittura che può diventare narrazione libera e fluida anche quando si muove nei meandri del reportage. Originale lo sforzo immaginativo supportato da quello dell’indagine di immaginare come la storia familiare si possa essere intrecciata nella Parigi livida sotto lo scacco del razzismo e della violenza con quella della misteriosa protagonista, Dora Bruder, che tale rimarrà. Il 31 dicembre 1941 appare su “Paris-Soir” l’annuncio della ricerca di una ragazza di quindici anni, ebrea la cui scomparsa è denunciata dai genitori, ebrei emigrati da tempo in Francia, Quasi cinquant’anni dopo Modiano incontra quelle righe del giornale e quella richiesta d’aiuto di fatto non evasa. Forse qualcosa si accende dentro a chi ha vissuto pur per interposta persona il dramma di quegli anni, attraverso il silenzio del padre. Forse perché Modiano non ce lo racconta. In qualche modo sembra però riuscire a restituire un’identità alla storia di Dora anche se non a lei; un lavoro uguale e contrario a quello che svolge nella sua autobiografia dove trova la sua identità andando sì a fondo della propria anamnesi familiare, per poi liberarsene, pensando che quella no, non era la sua vita.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Ancora un romanzo-verità per Patrick Modiano, narratore autentico delle vicende storiche umane con l’attenzione sul dolore e sull’orrore. Un testo breve, scarno, essenziale, uno stile nel segno più classico della prosa francese contemporanea che intreccia la propria autobiografia (recensita in questo spazio, Un pedrigree) con una vicenda di cronaca avvenuta agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso ma che, proprio perché misteriosa, resta sospesa in una narrazione da romanzo.
Nel libro e con questo lavoro Modiano testimonia il dovere di non dimenticare l’orrore negli anni della Guerra e del razzismo e ancora la forza della scrittura che può diventare narrazione libera e fluida anche quando si muove nei meandri del reportage. Originale lo sforzo immaginativo supportato da quello dell’indagine di immaginare come la storia familiare si possa essere intrecciata nella Parigi livida sotto lo scacco del razzismo e della violenza con quella della misteriosa protagonista, Dora Bruder, che tale rimarrà. Il 31 dicembre 1941 appare su “Paris-Soir” l’annuncio della ricerca di una ragazza di quindici anni, ebrea la cui scomparsa è denunciata dai genitori, ebrei emigrati da tempo in Francia, Quasi cinquant’anni dopo Modiano incontra quelle righe del giornale e quella richiesta d’aiuto di fatto non evasa. Forse qualcosa si accende dentro a chi ha vissuto pur per interposta persona il dramma di quegli anni, attraverso il silenzio del padre. Forse perché Modiano non ce lo racconta. In qualche modo sembra però riuscire a restituire un’identità alla storia di Dora anche se non a lei; un lavoro uguale e contrario a quello che svolge nella sua autobiografia dove trova la sua identità andando sì a fondo della propria anamnesi familiare, per poi liberarsene, pensando che quella no, non era la sua vita.
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mercoledì 10 giugno 2015
“Un pedigree” di Patrick Modiano
Ilaria Guidantoni Martedì, 09 Giugno 2015
Puntuale come un’autobiografia, narrative come un romanzo l’opera Un pedigree del premio Nobel Patrick Modiano, punge, incisiva, con la sua malinconia diffusa, il dolore senza rabbia di un figlio non amato che non serba rancore. Un libro originale, con le sue frasi brevi e il tono quasi distaccato di chi non scrive una confessione, né ha alcun desiderio compiacente di raccontarsi, né attende una catarsi ma, come scrive, vuole liberarsi così con una vita non sua, farla finita.
Il titolo che potrebbe essere rovesciato in “senza un pedigree”, nel senso che la storia complessa del protagonista non rappresenta un patrimonio, forse piuttosto un fardello del quale liberarsi. In un certo senso nemmeno un peso. Ovviamente psicologicamente non è possibile ma sembra che la vera eredità lasciatagli dai genitori sia l’indifferenza, la loro assenza, lontananza. Il titolo pare rendere omaggio ad un altro romanzo autobiografico, Pedigree (1948-1952) di Georges Simenon. Romanzo e non semplice autobiografia, perché narrazione che non si riduce al diario intimo, divenendo l’affresco di un’epoca vissuta attraverso gli occhi di un bambino e la rimozione del padre: l’essere ebreo come una colpa e dunque una condanna. Non solo, Modiano ci regala una visione particolare di Parigi, quella dell’ottobre 1942 quando due persone si incontrano, i suoi genitori, dalla cui unione nasceranno due figli, uno dei quali muore prematuramente, lasciando una grande solitudine nel giovane Patrick.
Ma l’autore non indugia sui sentimenti, sull’introspezione; si fa voce e lascia che il lettore faccia il suo viaggio. Parigi che esce da un sogno, non un incubo, ma una Parigi in qualche modo del sottosuolo, di alcune periferie, degli alberghi senza nomi.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Puntuale come un’autobiografia, narrative come un romanzo l’opera Un pedigree del premio Nobel Patrick Modiano, punge, incisiva, con la sua malinconia diffusa, il dolore senza rabbia di un figlio non amato che non serba rancore. Un libro originale, con le sue frasi brevi e il tono quasi distaccato di chi non scrive una confessione, né ha alcun desiderio compiacente di raccontarsi, né attende una catarsi ma, come scrive, vuole liberarsi così con una vita non sua, farla finita.
Il titolo che potrebbe essere rovesciato in “senza un pedigree”, nel senso che la storia complessa del protagonista non rappresenta un patrimonio, forse piuttosto un fardello del quale liberarsi. In un certo senso nemmeno un peso. Ovviamente psicologicamente non è possibile ma sembra che la vera eredità lasciatagli dai genitori sia l’indifferenza, la loro assenza, lontananza. Il titolo pare rendere omaggio ad un altro romanzo autobiografico, Pedigree (1948-1952) di Georges Simenon. Romanzo e non semplice autobiografia, perché narrazione che non si riduce al diario intimo, divenendo l’affresco di un’epoca vissuta attraverso gli occhi di un bambino e la rimozione del padre: l’essere ebreo come una colpa e dunque una condanna. Non solo, Modiano ci regala una visione particolare di Parigi, quella dell’ottobre 1942 quando due persone si incontrano, i suoi genitori, dalla cui unione nasceranno due figli, uno dei quali muore prematuramente, lasciando una grande solitudine nel giovane Patrick.
Ma l’autore non indugia sui sentimenti, sull’introspezione; si fa voce e lascia che il lettore faccia il suo viaggio. Parigi che esce da un sogno, non un incubo, ma una Parigi in qualche modo del sottosuolo, di alcune periferie, degli alberghi senza nomi.
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"I Germanesi. Storia e vita di una comunità della Calabria e dei suoi emigranti" di Carmine Abate e Meike Behrmann
Ilaria Guidantoni Domenica, 07 Giugno 2015
Un libro di grande attualità e un monito all’Italia per ricordare la sua storia di emigrazione ora che è diventata principalmente terra di immigrazione. Ma il vento potrebbe cambiare di nuovo e questo libro documento critico non a tesi offre ottimi e complessi spunti di riflessione. Un saggio che ha il gusto della narrazione e la penna letteraria dello scrittore calabrese, emigrato ed emigrante nel cuore, con un singolare punto di vista: un piccolo paese, una comunità singolare, un’analisi non statica, né dalla parte degli altri, dei tedeschi; un vissuto in presa diretta che cambia nel tempo, sia al maschile sia al femminile, grazie anche al contributo della sociologa tedesca coautrice del libro.
L’emigrazione è oggi uno dei grandi temi analizzato in modo originale e assolutamente contemporaneo dallo scrittore calabrese, poeta e romanziere, che ha tenuto nel cuore questo problema come racconta in alcuni suoi versi, per altro autobiografico tanto che in alcune occasioni ha dichiarato di aver cominciato a scrivere in parte proprio perché migrante. Suo padre partì quando Carmine aveva quattro anni per la Francia con un contratto da minatore per tornare e poi ripartire per la Germania dove di fatto ha passato la sua vita. E’ proprio la condizione nelle miniere che conosce bene e che viene analizzata più nel dettaglio in quest’opera, per i suoi risvolti amari. E’ importante però dire che non si tratta di un libro “triste”. L’emigrazione è una condizione e non è aprioristicamente né brutta né bella, piuttosto è stata vissuta in modo diverso a seconda delle stagioni. L’autore è a sua volta emigrato al seguito e per volontà del padre che vuole che impari come ci si guadagna il pane e sarà ad Amburgo, a Berlino, a Colonia dove insegna per sette anni italiano ai figli degli immigrati, ma anche in Francia dove studia. L’altro punto di vista, come accennato, è quello della sociologa Meike Behrmann, importante non solo per l’angolatura e l’approfondimento con una connotazione complementare, di analisi sociale appunto, oltre che autobiografica e di stile letterario-giornalistico, ma in quanto prospettiva femminile: questo ha permesso all’autrice di entrare in contatto più intimo con il mondo delle donne e con uno sguardo più diretto su dinamiche caratterizzanti e differenti da quelle dell’emigrazione maschile.
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Un libro di grande attualità e un monito all’Italia per ricordare la sua storia di emigrazione ora che è diventata principalmente terra di immigrazione. Ma il vento potrebbe cambiare di nuovo e questo libro documento critico non a tesi offre ottimi e complessi spunti di riflessione. Un saggio che ha il gusto della narrazione e la penna letteraria dello scrittore calabrese, emigrato ed emigrante nel cuore, con un singolare punto di vista: un piccolo paese, una comunità singolare, un’analisi non statica, né dalla parte degli altri, dei tedeschi; un vissuto in presa diretta che cambia nel tempo, sia al maschile sia al femminile, grazie anche al contributo della sociologa tedesca coautrice del libro.
L’emigrazione è oggi uno dei grandi temi analizzato in modo originale e assolutamente contemporaneo dallo scrittore calabrese, poeta e romanziere, che ha tenuto nel cuore questo problema come racconta in alcuni suoi versi, per altro autobiografico tanto che in alcune occasioni ha dichiarato di aver cominciato a scrivere in parte proprio perché migrante. Suo padre partì quando Carmine aveva quattro anni per la Francia con un contratto da minatore per tornare e poi ripartire per la Germania dove di fatto ha passato la sua vita. E’ proprio la condizione nelle miniere che conosce bene e che viene analizzata più nel dettaglio in quest’opera, per i suoi risvolti amari. E’ importante però dire che non si tratta di un libro “triste”. L’emigrazione è una condizione e non è aprioristicamente né brutta né bella, piuttosto è stata vissuta in modo diverso a seconda delle stagioni. L’autore è a sua volta emigrato al seguito e per volontà del padre che vuole che impari come ci si guadagna il pane e sarà ad Amburgo, a Berlino, a Colonia dove insegna per sette anni italiano ai figli degli immigrati, ma anche in Francia dove studia. L’altro punto di vista, come accennato, è quello della sociologa Meike Behrmann, importante non solo per l’angolatura e l’approfondimento con una connotazione complementare, di analisi sociale appunto, oltre che autobiografica e di stile letterario-giornalistico, ma in quanto prospettiva femminile: questo ha permesso all’autrice di entrare in contatto più intimo con il mondo delle donne e con uno sguardo più diretto su dinamiche caratterizzanti e differenti da quelle dell’emigrazione maschile.
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mercoledì 3 giugno 2015
“Malefica luna d’agosto” di Cristina Guarducci
Ilaria Guidantoni Lunedì, 01 Giugno 2015
Romanzo puro, narrativa di fantasia, una sorta di saga familiare, una nota noir, qualche storia d’amore. Romanzo di ambientazione toscana, la Maremma marina, anche se il mare e la spiaggia, come accade in questa terra, non si allontanano mai troppo dalla campagna, come dimostra la compresenza e vicinanza di pini marittimi e cipressi.
La luna dà il titolo, perché dà il tono del romanzo la luna che è incanto, femminilità oscura come questo libro nel quale la famiglia emerge in un confronto violento tra maschile e femminile dove però sono le donne a guidare e a tenere le fila, tanto che la nonna – sorta di capostipite dell’attualità – apre e chiude la vicenda con la fine della sua vita. L’aggettivo malefico trovo che suggerisca bene la nota della narrazione, pungente, con un’ironia grottesca, mista alla sagacia popolare e a qualche volo lirico più tipico di un romanzo classico. La collocazione toscana e gli accenni a Firenze, per quanto non oleografica, né circostanziata con dovizie di particolari o riconducibile a qualche descrizione realistica denota una conoscenza radicata del territorio che respira con la vicenda senza bisogno di dichiarazioni, a cominciare dalla scelta indovinata dei nomi che non pare frutto di una riflessione artefatta. E’ in qualche modo un romanzo d’altri tempi, sia per la vicenda, sia per la lingua quanto per lo sfondo che si può immaginare, ma se lo pensassimo in una realizzazione cinematografica o teatrale potremmo immaginare una scelta in costumi d’epoca tardo ottocenteschi o primi Novecento o attualizzata. In effetti il mondo resta fuori dalla vicenda spinosa, per certi aspetti surreale e altri macabra, della famiglia.
La recensione integrale su Saltinaria.it
Romanzo puro, narrativa di fantasia, una sorta di saga familiare, una nota noir, qualche storia d’amore. Romanzo di ambientazione toscana, la Maremma marina, anche se il mare e la spiaggia, come accade in questa terra, non si allontanano mai troppo dalla campagna, come dimostra la compresenza e vicinanza di pini marittimi e cipressi.
La luna dà il titolo, perché dà il tono del romanzo la luna che è incanto, femminilità oscura come questo libro nel quale la famiglia emerge in un confronto violento tra maschile e femminile dove però sono le donne a guidare e a tenere le fila, tanto che la nonna – sorta di capostipite dell’attualità – apre e chiude la vicenda con la fine della sua vita. L’aggettivo malefico trovo che suggerisca bene la nota della narrazione, pungente, con un’ironia grottesca, mista alla sagacia popolare e a qualche volo lirico più tipico di un romanzo classico. La collocazione toscana e gli accenni a Firenze, per quanto non oleografica, né circostanziata con dovizie di particolari o riconducibile a qualche descrizione realistica denota una conoscenza radicata del territorio che respira con la vicenda senza bisogno di dichiarazioni, a cominciare dalla scelta indovinata dei nomi che non pare frutto di una riflessione artefatta. E’ in qualche modo un romanzo d’altri tempi, sia per la vicenda, sia per la lingua quanto per lo sfondo che si può immaginare, ma se lo pensassimo in una realizzazione cinematografica o teatrale potremmo immaginare una scelta in costumi d’epoca tardo ottocenteschi o primi Novecento o attualizzata. In effetti il mondo resta fuori dalla vicenda spinosa, per certi aspetti surreale e altri macabra, della famiglia.
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