lunedì 14 novembre 2011

Rapporto 2010 “Il mercato e l'industria del cinema in Italia”

A cura della Fondazione Ente dello Spettacolo*

Il cinema come espressioni del made in Italy culturale troppo spesso rilevato come attività squisitamente culturale e non come un settore economico. Con questa consapevolezza è nata l’idea di redigere un Rapporto annuale sull’andamento del mercato e dell’industria cinematografica da parte della Fondazione Ente per lo Spettacolo, giunto ormai alla sua terza edizione. Lo studio fotografa il complesso e variegato mondo del cinema italiano, dal punto di vista della produzione, del lavoro, del successo al botteghino e delle prospettive future, un modo insolito per leggere il cinema, al di fuori della critica di settore e della cronaca rosa, e per approfondire uno spaccato socio-economico nazionale.
Sfogliando il testo, ci sono alcune cifre che balzano agli occhi: 141 i film prodotti in Italia nel 2010, uno dei traguardi più elevati degli ultimi 30 anni, dopo i 154 del 2008 e i 163 del 1980; come il record assoluto di investimenti privati italiani nella storia del nostro cinema: 276,9 milioni di euro nel 2010, il 65,3% delle risorse totali. Si rileva inoltre che continua a calare il sostegno del Fus: -19,5% rispetto al 2009. Nel 2003 le risorse pubbliche erano il 35,7% del totale, oggi toccano appena l’11%. Il 48% dei film italiani fa ormai ricorso al product placement, la pubblicità inserita nelle scene. Sul fronte del personale impiegato in questo comparto dell’industria solo il 21% del totale degli addetti impegnati nel cinema ha un contratto a tempo indeterminato; mentre l’universo delle imprese è frastagliato: appena l’1,9% ha un fatturato superiore a 5 milioni; la maggioranza (il 42,5%) va dai 5mila ai 250mila euro.
Nel complesso però, dal Rapporto 2010 emerge l’immagine di un cinema italiano vitale e sano, capace di produrre risultati inattesi: l’Italia è oggi il secondo produttore europeo (dopo la Francia) e il settimo al mondo (dopo India, Stati Uniti, Giappone, Cina, Corea del Sud e, appunto, Francia). L’analisi, interamente consultabile anche sul sito internet www.cineconomy.it, si snoda attraverso sei capitoli dedicati alle diverse anime del cinema italiano: la mappa delle aziende e la composizione societaria, la comunità professionale alle prese con un mercato flessibile e frammentario, i business futuri legati alla digitalizzazione delle sale, il ruolo sempre più marginale del contributo pubblico e i tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo.
<<Nonostante la precarietà in termini di lavoro che ancora caratterizza il sistema – spiega Dario Edoardo Viganò, Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo – il Rapporto 2010 ci consegna un’industria profondamente vitale, che ha saputo crescere anche in un periodo economicamente difficile come questo, ha ottenuto ottimi risultati al botteghino, e ha ampliato l’offerta di cinema prodotto e realizzato in Italia. Di particolare rilievo è il ruolo che il privato sta assumendo negli ultimi anni, a conferma che il cinema italiano è sempre più considerato un’industria capace di dare ritorni e risultati convincenti, non solo in termini di immagine, ma anche di mercato>>.

Per la parte che riguarda la Direzione Generale per il Cinema, nonostante la scarsità di risorse disponibili, su 312 milioni di euro investiti nella produzione di 141 film, coproduzioni incluse, il contributo pubblico è stato di 35 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti i 33,8 milioni di euro delle agevolazioni fiscali. Così, il sostegno finanziario dello Stato ha raggiunto complessivamente il 22,1 per cento, di cui l’11,3% come apporto diretto e come contributo alla produzione, il 10,8% come beneficio fiscale.
Nel 2011, questi numeri sono destinati ad aumentare in conseguenza della prevedibile espansione dell’utilizzo del tax credit, considerato che nell’anno precedente il meccanismo era stato introdotto solo nel secondo semestre e che sono state risolte le iniziali difficoltà operative.
Del resto, il percorso intrapreso a partire dalla riforma Urbani porta, con gradualità, ad affrancare la produzione cinematografica italiana dai contributi diretti dello Stato, che rafforza il proprio ruolo di stimolo e regolazione e abbandona quello di attore principale. Quanto più l’industria del Cinema è indipendente dai contributi dello Stato, tanto più è libera di esprimersi e agire economicamente in autonomia.
Nel Rapporto 2010 si è cercato di individuare quelle imprese - fra le oltre 9mila attive - che con il valore della loro produzione contribuiscono da sole a oltre l'80% del volume d'affari complessivo (sempre sul fronte del mercato dell'offerta, beninteso) di tutto il settore. Lo stesso campione di aziende selezionato è passato da 285 a 650 società di capitali

*La Fondazione Ente dello Spettacolo opera dal 1946 all'interno della cultura cinematografica italiana. Svolge attività di editoria tradizionale ed elettronica con il portale www.cinematografo.it, organizza eventi culturali, convegni internazionali, seminari e festival (www.tertiomillenniofilmfest.org), anteprime cinematografiche, spesso in collaborazione con importanti partner italiani e stranieri. È editore della Rivista del Cinematografo, il più antico periodico italiano di critica cinematografica. È proprietario del portale www.cineconomy.com, nato nel 2009 per offrire agli utenti una visione organica del Mercato e dell’Industria del Cinema in Italia. Organizza il Tertio Millennio Film Fest, il primo festival realizzato con il Patrocinio del Vaticano giunto alla sua 14esima edizione.

domenica 13 novembre 2011

"Come la Grecia" Quando la crisi di una nazione diventa la crisi di un intero sistema di Dimitri Deliolanes

Il saggio di Dimitri Deliolanes è scritto in uno stile piano, scorrevole, con grande lucidità. La giusta distanza di chi conosce bene sia la Grecia, sia l’Italia, perché questo è un libro scritto per gli italiani che, aggiungo, conoscono troppo poco la Grecia. E’ stata la culla della civiltà occidentale, il nostro punto d’inizio nello studio, di riferimento nella formazione del gusto artistico, eppure se ne sa ben poco. Della Grecia si parla poco, intendo dire della Grecia moderna. C’è un vuoto dall’antichità ad oggi che impressiona. Per l’italiano la Grecia è uno specchio deformante nel quale guardarsi cogliendone l’allarme. “Attenzione, potremmo diventare così”, sembrano dirci i giornali; ci sono affinità profonde e sono quasi tutte nei difetti; con qualche significativo distinguo. La Grecia, sempre per gli italiani, è anche il luogo delle vacanze di evasione, della trasgressione post adolescenziale…e poco di più.
Nella lettura più volte mi sono arrestata per chiedermi come un greco possa essere tanto crudele con il proprio paese, spietato nell’analisi, con un bilanciamento nel raccontare il dialogo tra il Belpaese e il suo senza flessioni. Deliolanes segue il nostro Paese da trent’anni come corrispondente per la ERT (la Radiotelevisione Pubblica Greca); ha prodotto trasmissioni e documenti sul rapporto tra i due paesi allungati sul Mediterraneo e in particolare ha studiato la strategia della tensione e il terrorismo italiano, traducendo in greco anche opere di letteratura italiana. Nel 2010 ad Atene ha pubblicato poi una biografia critica di Silvio Berlusconi. Questa metabolizzazione dell’intreccio delle due culture e delle lingue lo si avverte anche nell’originalità di un capitolo dedicato alla lingua greca.
Per il mondo, il greco è quello classico; la lingua di oggi resta, invece, per lo più sconosciuta e guardata con distrazione eppure la riflessione, sul demotico, la lingua parlata, è stata al centro di controversie politiche perché, giustamente, la lingua è il modo di pensare e di sentire di un popolo, diventando arma del contendere tra destra e sinistra, metafora di tradizione e innovazione.
Al centro del libro lo sguardo sulla crisi per rintracciarne le ragioni, prima che economiche, politiche, a loro volta, determinate da una crisi culturale. La paura più grande di questa crisi è la perdita della cultura e dell’identità greca, anche perché con pungenza l’autore descrive un abbassamento del livello culturale medio che fa spavento. Lo scultore Jannis Kounellis, greco di origine italiana, si è espresso dicendo che se si leggesse qualche poesia in più di Kavafis, forse il Paese vivrebbe meglio. Spesso nelle suggestioni e provocazioni di un artista c’è molta più verità di quanto non si creda.
Analizzando in parallelo Italia e Grecia, si vede la decadenza di due grandi culture, raccontate oggi da un’informazione becera e coltivate da una scuola inefficiente. In Grecia l’aggravio è dato dagli insegnanti in esubero e da una qualità scadente dell’insegnamento mentre l’Università, da rifugio baronale, è diventata la fucina della dissidenza studentesca, a causa dell’imperium dei consigli di facoltà.

"Esercizi spirituali" di Ignazio di Loyola

Gli esercizi spirituali sono un grande classico la cui suggestione è nata in me dal romanzo di Leonardo Sciascia, “Todo modo”, ovvero ‘in questo modo’, nel senso del modo con il quale si svolgono appunto gli esercizi spirituali scritti da Sant’Ignazio di Loyola. Il testo è per me eccelso, intendo il romanzo siciliano, forse l’opera migliore dello scrittore dal quale è nato un film molto discusso e bandito e una versione teatrale. In effetti gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola non nascono per essere letti ma recitati, eseguiti. Nondimeno sono un’opera di valore letterario e soprattutto di testimonianza storica e di grande forza in quella che potremmo definire una psicoanalisi spirituale.
Sono uno strumento che, come scrive il semiologo francese Roland Barthes in un bel saggio introduttivo nella versione (che oggi sembra esaurita) delle edizioni TEA, la collana Religioni e miti, “non occorre essere cattolici, né cristiani, né credenti, né umanisti per esserne interessati”.
Il mio interesse è nato certamente da una suggestione letteraria per diventare fascinazione dell’allenamento spirituale, non già e non necessariamente religioso, al quale siamo totalmente disabituati come del resto alla meditazione e certo non ne sono stata delusa.
Al di là dell’avvertimento di Roland Barthes è giusto precisare che occorre una discreta cultura per avvicinarsi agli Esercizi del basco rinascimentale che nacque nel 1491 e fu avviato alla carriera delle armi. La conversione spirituale lo portò poi ad essere ordinato sacerdote nel 1537 e a Roma dove inizia un percorso di piena disponibilità verso il Pontefice per la costituzione di un nuovo ordine religioso, la Compagnia di Gesù. Ignazio morirà poi nel 1556.
E’ lo stesso autore che circoscrive alle persone dotate di preparazione intellettuale gli Esercizi anche se con grande modernità cerca di accompagnare con garbo la soggettività di ciascuno riservando la meditazione di un’ora almeno ma possibilmente anche più alle persone abituate a compiti pubblici e con un intelletto più allenato. La disciplina è infatti tutta interiore nel senso che c’è, a più riprese, la disponibilità di chi accompagna l’esercitante nel modificare leggermente tempi e modi, nella maggiore ripetizione di un esercizio a seconda delle necessità e così via.
Dal punto di vista storico il testo è un documento importante perché riflette il linguaggio cortese della Spagna del tempo e non è un caso che a Dio è attribuito spesso il nome di maestà e anche la gerarchia della Chiesa sembra riflettere quella dello Stato. A mio parere emergono anche dei particolari che almeno nel linguaggio possono apparire inattuali all’uomo del XXI secolo rispetto all’autorità indiscussa della Chiesa e alla dichiarata superiorità del sacerdozio al matrimonio o laddove si parla, con una certa naturalezza per i tempi, di elementi di penitenza come il cilicio. Sotto il profilo del ruolo dell’opera nella storia, come ricorda Roland Barthes nel saggio introduttivo, i Gesuiti hanno svolto un ruolo determinante nella letteratura e hanno consegnato alla Francia barocca l’idea del bello scrivere. Sull’opera di Ignazio secondo molti critici il linguaggio degli Esercizi è faticoso e bizantino, perché il linguaggio è ritenuto solo un strumento funzionale ad esaltare il contenuto e forse (ndr) a sottolineare la fatica dell’anima in questo cammino. Secondo Barthes, al di là di un’idea della scrittura ‘decorativa’ e ‘funzionale’, esiste una terza via, primaria e antecedente, quasi una trascrizione della parola nel senso più profondo.
Il testo è multiplo e precisamente raccoglie 4 testi e ritengo possa essere letto a più livelli come molte opere pedagogiche quali i Dialoghi platonici ad esempio ma con una forte differenza: gli Esercizi di Ignazio sono un testo interrogativo, fondato sulla domanda e non sulla risposta o su una tesi da dimostrare, ma un cammino da vivere.
Quanto al destinatario il primo testo o livello è rivolto dall’autore al direttore spirituale del ritiro, il testo letterale; il secondo dal direttore all’esercitante, semantico; il terzo, allegorico, è l’esercizio vero e proprio che l’esercitante rivolge a Dio; il quarto, infine, analogico, il senso emanato dalla divinità.

"Camminando" Incontri di un viandante di Pino Cacucci

Ho scelto di inserire questo libro tra i classici anche se è solo del 1996 secondo la definizione che Hans Georg Gadamer dà di "classico" in “Verità e metodo”, quello che ha valore in sé, diventando un modello di riferimento che non tramonta con le mode e che a mio parere oltrepassa la letteratura corrente per diventare semplicemente letteratura e non solo un lavoro giornalistico. In anticipo sul nuovo millennio, Camminando, si presenta come un manuale snello di civiltà quale spinta alla conoscenza che è soprattutto incontro con l'altro. Mirabile l'episodio di Tania dove l'autore scrive che “Spostarsi è facile…Viaggiare con gli occhi sgranati sulle meraviglie altri è inutile, quando l'anima resta chiusa nella cassaforte di casa. Un vero viaggio, si può fare anche camminando a piedi fino a un quartiere della propria città…”. Come ho scritto in “Prima che sia buio”, non esiste viaggio più affascinante dell'incontro con l'altro, che non ha termine e può diventare l'unica prova reale dell'esistenza di Dio. L‟altro è chiunque ma soprattutto il diverso che per la propria „originalità‟ spesso non voluta è emarginato, è in generale la schiera degli umiliati e offesi che, nella versione moderna, è rappresentata dall'immigrato, mentre l'incontro autentico è declinato nell'accoglienza non semplicemente caritatevole ma animata da una curiosità profonda. Reporter viaggiatore che con umiltà dà voce ai personaggi, Cacucci si nasconde in essi, quasi timidamente, lasciando gli altri affiorare alla superficie delle sue pagine, evitando così di confezionare tesi o anche solo interpretazioni. Il viaggio diventa una modalità esistenziale d'essere piuttosto che un percorso da misurare in chilometri o miglia. E' una scrittura garbata quella di Cacucci, sintetica, incisiva ma con un volto naturalmente poetico. Di grande delicatezza anche quando racconta violenze, si avvicina soprattutto agli oppressi, ai dimenticati che possono essere anche vicini nello spazio come un pittore di Bologna o in villaggi sperduti del Cile o del Messico, il cuore del racconto. Sono i conflitti, le rivoluzioni, più che le guerre che sembrano attrarre l'attenzione dell'autore. E' soprattutto il Messico polveroso la sua patria d'elezione dalla quale ci giunge un breviario senza alcuna volontà didascalica, una lezione spontanea di metodo, e non solo di scrittura ma forse di vita per chiunque decida di smettere i panni del turista e vestire quelli di viaggiatore.

Camminando
Incontri di un viandante
Pino Cacucci
Universale Economica Feltrinelli
Prima edizione, Settembre 1996

sabato 12 novembre 2011

“Non Ho Più Paura” Tunisia. Diario di una rivoluzione

“Non ho più paura. Tunisia. Diario di una rivoluzione”, è un  libro collettivo, a più voci, che racconta il mese, giorno per giorno, in cui è nata e scoppiata la primavera araba. Attraverso un diario-cronaca, i diversi autori provano a spiegare come il gesto di un povero ambulante, Mohamed Bouazizi, immolatosi per rivendicare la propria dignità, abbia coinvolto un intero popolo, abbattendo il “muro della paura” e dando il via a un cambiamento inaspettato in Tunisia.
Il libro, dunque, contiene racconti, commenti, appunti, contributi firmati da una rete di studiosi, giornalisti, imprenditori, artisti italiani e tunisini e naturalmente blogger che si sono scambiati centiania di messaggi sui so¬cial network come Facebook e Twitter, che durante la primavera araba, si sono trasformati in una piazza virtuale in cui esprimere il proprio dissenso.
Tra le testimonianze quelle del regista Mourad Ben Cheick, autore del documentario Mai più paura presentato al Festival di Cannes, della blogger attivista Lina Ben Mhenni, della storica Lilia Zaouali, dell’attore Ahmed Hafiene, dell’antropologa residente a Tunisi Francesca Russo, dell’economista Simone Santi e di alcuni giornalisti italiani tra cui Luciana Borsatti e Francesca Bellino.
Questa rete, nota come Italiani di Cartagine, continua a esprimersi attraverso un blog omonimo www.italianidicartagine.blogspot.com che raccoglie testimonianze dalle due sponde del Mediterraneo.
Parte del ricavato dalla vendita del libro verrà devoluto al progetto Colors che sostiene l’integrazione di bambini tunisini e di altre comunità di immigrati in Italia attraverso lo sport.

L’Associazione Incontri di Civiltà si occupa della promozione delle diverse culture del Mediterraneo con l’obiettivo di valorizzare il dialogo, gli scambi, i riflessi e le trasformazioni che nascono dall’incontro tra i Paesi che affacciano sul cosiddetto Mare Nostrum. Con una progettualità che nasce dal locale e si proietta verso il globale, l’Associazione promuove e organizza iniziative dedicate alle diverse forme culturali e d’arte, alle tematiche sociali e dell’ambiente del bacino del Mediterraneo e sposa il progetto di questo libro che, oltre a essere una fedele cronaca degli eventi che hanno interessato la Tunisia dal 17 dicembre 2010, è come la stessa rivoluzione tunisina un esempio di coralità, incontro e scambio tra culture.


“Non ho più paura. Tunisia. Diario di una rivoluzione”
Gremese 
prefazione di Mario Morcellini

mercoledì 14 settembre 2011

Razza padroncina di Deborah Appolloni

Un titolo accattivante che mette il dito nella piaga del settore dell’autotrasporto anche se dallo stesso libro appare un comparto variegato, con una presenza di imprese strutturate, anzi di veri e propri gruppi industriali. Il libro racconta gli ultimi 10 anni del settore che non mostrano grandi passi avanti e fotografano un sistema fossilizzato e tenuto in vita da “una valanga di incentivi” (3,5 miliardi tra il 2000 e il 2009). Ne emerge un modello aziendale poco strutturato e fuori mercato con un’evidente polverizzazione del comparto che conta circa 120 mila imprese che ottengono periodicamente il sostegno della politica per il timore di un fermo o di un blocco. L’ultimo episodio è quello del Protocollo del 17 giugno scorso che ha reintrodotto le tariffe minime, abolite nel 2005. Una parte del volume – che scorre agevolmente in stile manuale da perfetto servizio studi de’ Il Sole 24 Ore – analizza, dando un affresco completo, il settore in rapporto al panorama europeo; i limiti e criticità del comparto; le relazioni con la politica e l’evoluzione delle trattative estenuanti, degli accordi e del tentativo di una riforma strutturale mancata. Nell’ultima parte le questioni ancora aperte sul tavole e un’appendice dedicata alla normativa. Interessante la terza parte dove emerge il profilo giornalistico da inchiesta che mette in luce la frammentazione e la varietà delle imprese di autotrasporto oltre alla profonda crisi non solo delle aziende, ma anche delle persone, siano esse camionisti, padroncini, piccoli imprenditori, ma anche grandi, che non vedono l’uscita dal tunnel. In evidenza come, in un mondo che cambia e sovverte molti ordini precostituiti, il camionista non sia ancora un mestiere per donne. Con precisione scrupolosa, fatta di numeri e confronti, l’autrice – senza pedanteria – porta alla luce la fragilità del sistema italiano, indiscusso leader di mercato nel trasporto merci interno, in relazione al resto dell’Europa. Molte, troppe le imprese del settore, superate solo da quelle spagnole, deboli in termini di fatturato, numero addetti, mezzi, con un raggio di azione che si limita per l’81% dei casi al territorio nazionale. Vetusto il parco circolante, che fa capo ad aziende poco propense ad investire in tecnologia seppur per indole abituate all’uso di Internet (con una forte presenza degli autotrasportatori su Facebook per dare una curiosità).