mercoledì 31 ottobre 2012

Tunisi, 29a edizione della Fiera internazionale del Libro


Dal 2 all'11 novembre al Parco delle Esposizioni del quartiere il Kram, 317 espositori di cui 112 della Tunisia, 85 dell'Egitto; 29 della Siria e uno dalla Francia. Tema di quest'edizione l'eco delle rivoluzioni arabe. All'apertura è atteso il romanziere algerino Yasmina Khadhra.

martedì 30 ottobre 2012

Ottobre in libreria...sul versante della letteratura araba. Le novità di Editoriaraba

Gialli d’Oriente. Racconti polizieschi dal medioevo arabo
a cura di Katia Zakharia.
Traduzione italiana di Arianna Tondi. Introduzione di Samuela Pagani - Manni Editore
(pp. 252 – € 17,00)
“Il libro - si legge su Editoriaraba - raccoglie ventotto novelle poliziesche di autori dell’epoca abbasside (750-1258), ed è anche, insieme, un corso di arabo e un corso di islamistica che ci offre uno spaccato di vita quotidiana nella Baghdad medievale. […]
I racconti sono disposti in ordine crescente di difficoltà, testo in arabo con vocalizzazione e traduzione italiana, note grammaticali, lessicali e culturali. A fine volume, un apparato didattico e un vocabolario riepilogativo italiano-arabo e arabo-italiano”. 


Vedere adesso
di Montasser al-Qaffash
Claudiana editrice - Traduzione dall’arabo e cura di Elisa Ferrero (pp. 131 – € 11,90)
“La modernità vista dall’Egitto, secondo Editoriaraba. […] Vedere adesso è un romanzo ingannatore: esordisce come un poliziesco, con un “delitto” iniziale – lo sfregio delle fotografie della moglie del protagonista, Ibrahim, giovane contabile di un albergo in fallimento che si accorge di perdere la memoria – per poi spostarsi verso il piano soggettivo della ricerca di sé e della propria identità”.


La casa di pietra. Memorie di una casa, una famiglia e un Medio Oriente
di Anthony Shadid - add Editore
Traduzione dall’inglese di Stefania Rega
(in libreria dal 30 ottobre)
“La casa di pietra - ci annuncia Editoriaraba - è un libro meraviglioso, il racconto di un anno dedicato a restaurare la casa di famiglia a Marjayoun, nel Libano meridionale. Queste pagine sono una sinfonia, composta dalle note più diverse: elegia, ironia, rabbia, divertimento. Shadid fa di questa esperienza uno dei memoir più belli che abbiamo letto, ed è un peccato, se non un’ingiustizia, che l’autore non abbia potuto vedere stampato questo libro”.

mercoledì 24 ottobre 2012

"Gli anni di nessuno" di Giuseppe Aloe, finalista premio Strega 2012


Recensioni libri
Scritto da Ilaria Guidantoni    
Mercoledì 24 Ottobre 2012

Scrittore anomalo, cosentino, in un momento storico che premia gli esordienti giovanissimi e i 'grandi nomi' da sempre. E' difficile rintracciare i parenti di questo autore che scrive da sempre ma che è arrivato gradualmente al successo. Ha pubblicato con costanza legandosi a Giulio Perrone, con il quale ha concorso al Premio Strega con "La logica del desiderio" e nel 2012 è stato finalista allo stesso Premio con "Gli anni di nessuno".

Paolo Di Paolo - critico letterario, consulente editoriale della casa editrice e da qualche tempo scrittore a sua volta - intervenendo alla presentazione alla libreria Feltrinelli della Galleria Colonna di Roma, ha evidenziato la difficoltà di apparentare la scrittura di Aloe ad altro eppure è una tendenza della critica. "La lingua di Giuseppe Aloe ha qualcosa di ipnotico ed e' forse questo il suo tratto caratteristico, costringendo il lettore a seguirlo, al di la' di qualcosa di eclatante nella trama". 
E ancora il moderatore sottolinea nel libro di Aloe un processo di recupero alla luce in parallelo tra la storia e il linguaggio: la storia è il cammino di una riabilitazione di un ragazzo chiuso segregato per anni in una stanza buia dal padre, dopo la morte della mamma. Un doppio trauma, quando il dolore diventa punizione. 

La recensione integrale su Saltinaria.it

lunedì 22 ottobre 2012

Urban Cairo, un taccuino di viaggio tra gli slogan della rivoluzione


"Editoriaraba" propone un libro singolare di una giornalista italiana, Elisa Pierandrei
Riportiamo quasi integralmente l'articolo che ci pare interessante e originale.

Una narrativa laterale, spesso ignorata.

Accade, a volte, che alcuni  uomini e donne raccontino la Storia attraverso una forma narrativa diversa, ma complementare, rispetto a quella testuale, come fanno gli artisti. 
E gli artisti, anzi con l’esattezza, i graffitari o urban artist, sono i protagonisti rivoluzionari di Urban Cairo. La primavera araba dei graffiti, di Elisa Pierandrei, giornalista italiana esperta di media arabi e arti visive del mondo arabo, e appena pubblicato da Informant editore. 
Urban Cairo è un e-Book, un reportage, un diario di viaggio, un taccuino personale coraggioso, un esperimento testuale e visivo insieme (una magia che solo l’epoca degli e-Book poteva regalarci), che racconta la primavera egiziana attraverso le vite e le opere di quegli artisti che l’hanno raffigurata sui muri del Cairo. Giovani trentenni come Keizer, El Teneen e Ganzeer, che l’autrice ci fa conoscere, tra una chat su skype o un caffè allo Stella Bar del Cairo, l’unico ritrovo rimasto sempre aperto, anche durante gli scontri più violenti.
L’e-Book contiene numerosi link extra-testuali a schede informative e, naturalmente, ai graffiti, raccolti e fotografati dall’autrice durante i numerosi viaggi fatti negli ultimi due anni al Cairo, una città sui cui muri arte e rivoluzione hanno imparato ad andare a braccetto. I graffiti raccontati da Urban Cairo sono disegni e parole insieme, o a volte solo disegni. Diretti e graffianti, la loro è una satira sociale e politica che colpisce primariamente lo SCAF, Mubarak e i simboli del vecchio regime. 
Elisa Pierandrei ci racconta come la corrente artistica dei writer egiziani sia nata nel 2007, molto prima della rivoluzione del 2011, nei quartieri “bene” del Cairo come Heliopolis e Zamalek, e sia poi esplosa nel gennaio dello scorso anno, grazie anche alla spinta propulsiva dei tantissimi bloggers e attivisti che da anni animavano dibattiti sulla Rete per far cadere il regime (come ha raccontato Azzurra Meringolo sul suo I ragazzi di piazza Tahrir, 2011). L’obiettivo comune di questa nuova generazione egiziana digitale era scuotere le menti degli egiziani e provocare una loro reazione. E così è andata.
“Dopo aver trascorso settimane su Twitter e Facebook, un pugno di grafici, artisti e pubblicitari ha scelto la strada per esprimere il dissenso. Sono informati, attivi ed impegnati e i muri del Cairo sono diventati così il loro nuovo social network. Fisico” racconta l’autrice. E questa, è la loro rivoluzione.
I graffiti compaiono numerosi e colorati sui muri che circondano i centri simboli del potere egiziano, e vengono spesso eseguiti attraverso la tecnica dello stencil. “Arma beffarda della guerriglia urbana”, li definisce Stefania Angarano, italiana residente al Cairo, gallerista e creatrice del Cairo Mediterranean Literary Festival, nonché autrice dell’ottima prefazione a Urban Cairo.
Da giornalista, l’autrice di Urban Cairo è stata testimone di quei gloriosi giorni di piazza Tahrir, l' "oceano umano” raccontato dai media di mezzo mondo, che hanno portato alla caduta del Faraone l’11 febbraio. 
Un avvenimento epocale interpretato magistralmente dall’incredibile graffito di El Teneen: una scacchiera, dove l’unica pedina ad essere rovesciata è quella del Re. 
Dopo l’allontanamento di Mubarak (il cui “regno”, è bene non dimenticarlo, è durato circa 30 anni. Praticamente tutti i giovani artisti della rivoluzione hanno vissuta la loro intera vita sotto l’ombrello asfissiante del regime. C’è una scritta particolarmente significativa a questo proposito ed è quella che recita: “Voglio vedere un altro Presidente prima di morire”), “le strade e le piazze diventano luoghi di cui riappropriarsi” e sono testimoni di nuove forme artistiche, nuove performances, eseguite nelle gallerie, come la mostra This is not graffiti, in mezzo alla strada o nei vagoni della metropolitana. È un risveglio sociale, politico ma soprattutto culturale in cui i writers sono convinti di aver svolto un ruolo importante perché hanno reso “consapevoli gli egiziani del loro diritto alla protesta”. 
Perché, dice una giovane blogger egiziana: "perché questo è ciò che i graffiti possono essere: spudorati, brillanti, offensivi, diretti o sottili. Pieni di sfumature e di livelli di lettura, provocano la riflessione, o possono semplicemente essere belli da guardare". 
E' da ricordare l’importantissimo contribuito apportato dalle donne egiziane alla causa rivoluzionaria. Come “Mustamirra”, di El Teneen, e “Flow”, di Keizer.
Ma i graffiti del Cairo sono molti, molti di più. In Urban Cairo sono stati fotografati e raccolti in questa bellissima mappa interattiva, dove più di 30 opere sono state geolocalizzate nelle strade del Cairo. Molti di questi graffiti oggi non ci sono più, spazzati via dalle forze della contro-rivoluzione, all’opera quasi da subito. Ed ecco quindi che la mappa e le storie di Urban Cairo diventano testimoni di una stagione espressiva e culturale che ha restituito al Cairo il suo ruolo di centro del mondo arabo, non solo dal punto di vista politico, ma anche culturale.
Se la Rivoluzione è uno dei grandi temi narrativi che l’umanità ha sempre raccontato, gli artisti della graffiti wave che è esplosa durante la rivoluzione egiziana ne sono stati i suoi più fedeli.

domenica 21 ottobre 2012

A Francesca Caferri di "la Repubblica" il Mediterranean Journalist Award.

La giornalista ha vinto la sesta edizione del premio con il libro "Il Paradiso ai piedi delle donne: le donne e il futuro del mondo musulmano" (Mondadori edizioni) sui pregiudizi con il quale l'Europa guarda l'Islam.

venerdì 19 ottobre 2012

Una recensione di Daniela Toschi


“Storia di David
Il dislessico fingitore”

Traduzione italiana di The deceitful dyslexic, di Alex Nile

Riceviamo e pubblichiamo la recensione a cura di Daniela Toschi


Nel titolo dato alla versione italiana di questo libro pare evidente che il traduttore si sia ispirato alla nota poesia di Pessoa, “Il poeta fingitore”. Proprio come il poeta, anche il dislessico è un fingitore: deve nascondersi, portare una maschera per proteggere se stesso e gli altri, come afferma a un certo punto David, il protagonista, costretto a dissimulare tante cose, e in primo luogo "a fingere che non è dolore, il dolore che davvero sente"...
Un mondo affascinante, con aspetti per altro inquietanti e dolorosi, quello della dislessia, al quale  appartengono alcuni dei massimi geni creativi così come anche tante persone comuni.
Parlando di dislessia viene da pensare ai bambini dei quali finalmente si occupa la legge 170 del 2010, trascurando il fatto che ci sono altrettanti adulti, mai diagnosticati e mai informati sui motivi per cui, ai tempi della scuola, avevano difficoltà così strane e in contrasto con la loro vivace intelligenza. E questo, soprattutto in Italia, vista la peculiare lentezza che ha caratterizzato l’approccio al problema nel Belpaese.
I dislessici sono adulti che si nascondono, temendo a ragione di non essere compresi e di essere soggetti a perfidi pregiudizi. E che magari, essendo spesso geniali e portati a raggiungere il successo; solo dopo averlo ottenuto, osano sfidare il mondo degli 'ortolessici' e riaffrontare le terribili cicatrici del periodo scolare per chiedersi: "Ma cosa c'era in me che non andava? Perché per me la scuola è stata un tale inferno?"
E così giungono alla diagnosi. Com’è accaduto, tra gli altri, a Steven Spielberg, che ha chiarito di essere dislessico solo cinque anni fa e lo ha dichiarato di recente.
In Italia attualmente pare ci sia un solo centro pubblico dove un adulto o un giovane adulto può essere diagnosticato tramite gli appositi test.
Ma anche vicino a noi stanno iniziando a sorgere centri dove vengono adeguatamente supportati gli studenti universitari. Giovani talenti da coltivare, se riescono a superare l'impatto tremendo con l'istituzione scolastica, ancora, globalmente, alquanto dislessica nei confronti della la dislessia. Molti, forse, non ci riescono. Che ci siano, anche nell'ambito della dislessia, 'sommersi e salvati'? Che ci siano dislessici per i quali la scuola è un lager?
L'autore di questo romanzo breve, Alex Nile, ci risulta essere il nome d'arte di un accademico inglese, lui stesso dislessico, che ha scritto e curato diversi trattati sul tema, non da ultimo "Dyslexia and creativity".
Intendiamoci: la creatività dislessica non va intesa come qualcosa di estroso, stravagante o necessariamente artistico. E’ piuttosto, secondo la definizione più corretta e concreta del termine 'creatività', la capacità di trovare nuove soluzioni, di risolvere quei problemi complessi che costituiscono una sfida al pensiero comune. Da cosa deriva? Ci sono varie ipotesi: pensiero laterale rispetto al pensiero verticale, possibilità di sfuggire alla "euristica dell'ancoraggio" proprio grazie al deficit negli automatismi e all'incapacità costituzionale di conformarsi, e così via.  Ma l'autore ci ricorda anche il concetto di "crescita post-traumatica": il trauma (o meglio, in questo caso,  i numerosi traumi subiti sin dal primo contatto con la scuola) oltre ad effetti distruttivi reca anche effetti costruttivi, inducendo una precoce maturità e una spinta a trovare strategie di sopravvivenza e di ricostruzione continua di una immagine positiva di sé e del mondo quotidianamente minacciata.
Il libro è ambientato in Inghilterra, dove l'interesse per la dislessia non è certo recente. Nonostante ciò il protagonista ignora di essere dislessico, seppur ben consapevole che, per quanto sia riuscito a laurearsi, non sa fare cose che per tutti sono banali, ad esempio scrivere senza fare errori grossolani... Perciò si sente costretto a mantenere un low profile nel lavoro e nella vita per non essere giudicato superficialmente e deriso come gli capitava a scuola. La storia è a lieto fine: David scoprirà la ragione dei suoi paradossi, deciderà di osare una disclosure coraggiosa e troverà persone che gli consentiranno di sviluppare le sue capacità creative, avanzando nella carriera e portando benefici all'azienda in cui lavora.
La storia di David è scritta in modo apparentemente semplice, ma chi ha letto i libri dell'esperto che si nasconde dietro il nome di Alex Nile si accorge con stupore che contiene tutto ciò che occorre sapere riguardo alle problematiche psicologiche, relazionali e sociali che un dislessico adulto deve affrontare. Il tutto, però, è qui narrato con sobria leggerezza. Non dimentichiamo che il libro è stato scritto da un dislessico che, in quanto tale, non ama gli sprechi di parole, prediligendo 'la parola incarnata'.
Viene quasi da chiedersi se tanto interesse recente per la dislessia non scaturisca dalla nausea per gli abusi di parole (declamate o stampate) che abbiamo subito per anni e che ancora stiamo subendo, e dall'urgenza di trovare un nuovo stile, di vita e di scrittura, che restituisca alla parola il suo schietto ruolo comunicativo e che indirizzi il pensiero a trovare soluzioni reali, nuove ed efficaci.
Il traduttore, Valerio Innocenti, è insegnante di lingue straniere presso l'Istituto Guglielmo Marconi di Viareggio. Ha realizzato la versione italiana di questo libro in occasione del convegno “Una volta non c'era..." Storie vere di dislessia, in programma a Montecatini il 27 ottobre 2012.
La versione italiana, come quella originale, sono disponibili come kindle su Amazon.

giovedì 18 ottobre 2012

A Milano, il 24 e 25 ottobre la poesia racconta la Storia


Da Kabul alla Cecenia; da Haiti al Darfur; dalla rivoluzione in Egitto, alla resistenza del popolo iraniano; dall’11 settembre a Michelle Obama; da Fukushima alle storie dei migranti; dalla 
prepotenza cinese a Putin. E a Berlusconi.

Dal libro “Imagenes Tràsmundo”, di Benny Nonasky, edito da Albeggi Edizioni, tanti gli spunti per un viaggio nella poesia di impegno civile, una forma di poesia che sta riconquistando attenzione, seguito e importanza in Italia e nel mondo. Dopo gli incontri di Torino e di Roma, Il poeta Benny Nonasky discute a Milano del suo libro con i lettori:

·Mercoledì 24 ottobre alle 18.30 alla Libreria Popolare di Via Tadino (in Via Tadino, 18 – zona C.so Buenos Aires), insieme a Ottavio Rossani, critico letterario, giornalista del Corriere della Sera e autore di un seguitissimo blog di poesia e Jean Claude Mbede, giornalista rifugiato politico.

·Giovedì 25 ottobre alle 18.45 alla Libreria Hellisbook (in Via Piero della Francesca, 22 – zona C.so Sempione) sempre con il critico letterario Ottavio Rossani e con Angelo Miotto, giornalista esperto di geopolitica, ex caporedattore di E, il mensile di Emergency, che ha da poco terminato le sue pubblicazioni.

mercoledì 17 ottobre 2012

Sul blog Editoriaraba il tema dell'omosessualità

Abdellah Taïa fra letteratura e omosessualità


di Rabii El Gamrani*
(Riportiamo buona parte dell'articolo

)

Era dai tempi di Mohamed Choukri e del suo “Pane nudo” che un autore marocchino non suscitava tanta polemica e interesse. Poi venne Abdellah Taïa, classe 1973 di Salè, professione: scrittore, con  il suo nuovo libro, da poco uscito in Francia (Éditions du Seuil).
 
Non è mai un evento piacevole che l’ingresso di un autore nella scena culturale di un determinato paese inizi all’insegna dello scandalo. C’è sempre qualcosa che si perde focalizzando l’attenzione sull’aspetto scandalistico di un testo o del suo autore. 
Successe con Choukri e succede con Abdellah Taïa.
 Acclamato da alcuni e detestato da altri, l’autore di “L’esercito della salvezza” può lamentarsi di tutto tranne che dell’indifferenza nei suoi confronti. 
Abdellah Taïa viene presentato come il primo scrittore arabo-marocchino ad aver confessato la sua omosessualità. 
Apriti Sesamo. Apriti cielo. 
Ciò che si cela dietro Sesamo è un clamoroso interesse occidentale e di una certa intellighenzia marocchina progressista. 
Invece dietro il cielo squarciato dalla confessione di Taïa ci sono critiche, sdegno e omofobia, ovviamente la corrente tradizionalista che nella società marocchina è maggioritaria. 
C’è qualcosa di dannato e al contempo di eroico nel personaggio di Abdellah Taïa. 
Nel 2009 pubblica una lettera dal titolo “L’omosessualità spiegata a mia madre” sulla rivista marocchina “Telquel”. Era la seconda uscita pubblica di Taia in quanto scrittore omosessuale. 
La prima la fece nel 2007 sempre sulla stessa rivista, ma paradossalmente passò inosservata. 
Ci volle una confessione, un dialogo nell’ambito della famiglia rivolto soprattutto alla madre, ciò che c’è di più sacro nella società marocchina, perché il paese scoprisse che esistono gli omosessuali. 

Ma con Abdellah Taïa qualcosa è cambiato, c'è stato un salto di qualità: dall’esistenza tollerata ma taciuta, alla rivendicazione del diritto, alla lotta e alla mobilitazione per la libertà sessuale. 
In un’intervista apparsa sul supplemento letterario del quotidiano francese "Le Monde" dichiara che non teme d’essere identificato come uno scrittore omosessuale “se ciò servisse a far uscire l’omosessualità dalla sfera della vergogna e del tabù, significa che ne è valsa la pena”. 

All’attivo di Taïa ci sono cinque romanzi, una raccolta di racconti, un libro fotografico sul Marocco scritto a quattro mani con Frédèric Mitterrand e un pamphlet-lettera distribuita gratuitamente sempre con la rivista Telquel dal titolo “Lettera ad un giovane marocchino”.
 L’omosessualità fa da collante a queste opere in delle trame che uniscono il sociologico al politico, il mitologico al fiabesco-popolare con tanti spunti autobiografici, ed è l’autore a confessare in “L’omosessualità spiegata a mia madre”, rivolgendosi alla sua famiglia: “Rubo le vostre vite per trasformarle in frammenti letterari”. 
“Ho sognato il re”, il suo romanzo politico per eccellenza, gli è valso Le Prix de Flore (premio creato dallo scrittore francese Frédèric Beigbeder ).
 
Taïa rivela sempre nella stessa intervista prima citata: “Più scrivo, più prendo coscienza delle ingiustizie, e del fatto che non sono solo”.
 Dal suo outing nel 2007 sono nate associazioni per i gay (l’associazione “Kif Kif” con sede legale in Spagna) e riviste specializzate come "Aswat" (Voci). Quest’ultima è la prima rivista araba dedicata al mondo gay, in cui tutti i redattori scrivono a volto scoperto, e firmano con il loro vero nome. 
In un’ intervista durante la sua presenza alla fiera internazionale del libro di Casablanca, in occasione della presentazione del suo ultimo romanzo “Les infidèles”, Abdellah Taïa parla del rapporto complesso che lo lega al Marocco: un grande amore conflittuale.



*Animatore, tra l'altro , sul blog A.L.M.A., di una rubrica di letterature dimenticate, d’altrove, dal titolo Letture d’Altrove, che propone ogni mercoledì un viaggio in un universo letterario altro, troppo spesso e a torto dimenticato dal grande pubblico.

lunedì 15 ottobre 2012

"Tanto già lo sapevo" di Loredana De Vitis finalista nel concorso "ilmioesordio" 2012


"Tanto già lo sapevo", il romanzo di Loredana De Vitis è in finale nel concorso "ilmioesordio" 2012, promosso in collaborazione con Scuola Holden e Feltrinelli editore, e concorre quindi al primo premio generale.

Ecco l'elenco dei 31 finalisti (su circa 2.300 concorrenti), con il collegamento all'anteprima delle prime pagine dei romanzi: http://temi.repubblica.it/ilmiolibro-holden/ilmioesordio-romanzo-lista-finalisti/

L'incipit, inoltre, è stato valutato da Scuola Holden tra i dieci migliori in assoluto e concorre anche al "premio community". Qui si può votare: http://temi.repubblica.it/ilmiolibro-sondaggio/?pollId=3555. Il "sondaggio" non ha "valore statistico"; si può votare una volta al giorno e da diversi browser.
Ecco i commenti su ilmiolibro (http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=84065) e si possono leggere alcune recensioni sul sito di Feltrinelli (http://www.lafeltrinelli.it/products/9788891023100/Tanto_gia_lo_sapevo/De_Vitis_Loredana.html)

L'autrice ha appena concluso "storie d'amore inventato", la rassegna "messinscena d'affanni in cinque quadri e un casello", ed e' al lavoro sul catalogo generale (la presentazione entro fine anno) e alla sua prima opera di "video art": "il minore dio creatore", con Lea Barletti e Cristina Cagnazzo alla sonorizzazione.

sabato 13 ottobre 2012

Un saggio sulla logistica e i trasporti per lo sviluppo

LOGISTICA E TRASPORTI MOTORE DI SVILUPPO
 
Giovedì 18 Ottobre alle ore 12
presso l'Hotel Nazionale, in piazza Montecitorio a Roma,
con Altero Matteoli, Anna Bonfrisco, Luigi Grillo, Mario Valducci,Paolo Uggè
Eleuterio Arcese, Francesco Del Boca, Massimo Stronati

 un lavoro su:
LOGISTICA E TRASPORTI MOTORE DI SVILUPPO PER IL CAMBIO DI PASSO DEL PAESE
Le grandi potenzialità sin qui sottovalutate.
Riflessioni e proposte dagli anni più duri della crisi,
dopo 4 anni di accordi, lavori parlamentari e
la presentazione del Piano nazionale della logistica 2012-20.

Di Bartolomeo Giachino
con le interviste di Deborah Appolloni e Umberto Cutolo

venerdì 12 ottobre 2012

Quell'8 settembre del 1943 all'isola La Maddalena


“Schegge di luna”

di Gian Carlo Tusceri

prefazione di Giuseppe Tusceri

Ho conosciuto questo libro direttamente dal suo autore che non so per quali vie mi abbia conosciuta, chiedendomi di leggere il suo libro del quale mi ha fatto dono. Mi ha colpito il luogo di nascita, l’isola La Maddalena in Sardegna proprio nel momento in cui stavo mettendo a punto il nuovo blog Il Chiasmo del Mediterraneo, nel quale le isole ricoprono una singolare posizione; non solo, ma l’anno di nascita di suo padre è lo stesso di quello del mio e in qualche modo mi ha scritto che la storia di questo testo è legata a suo padre. Come racconta nella prefazione Giuseppe Tusceri, il figlio dell'autore, “ci sono cose che, nella vita di una persona, lasciano il segno più di altre” e a tale proposito ricorda un libro che portava il nome di suo padre. Scrive: “Erano solo poche pagine e guardandolo pensai che era piccolo per diventare una pietra miliare!”. Anch’io ricordo che, diversamente da quello che poi sarei diventata, iniziai realmente a leggere tardi, proprio grazie a mio padre che mi regalò il suo “Ferie d’agosto” di Cesare Pavese. Avevo quindici anni e da allora non ho mai smesso di leggere. Le parole che passano per un verso o per l’altro attraverso gli affetti e le emozioni sono destinate a restarci dentro più a lungo e più intensamente. Cosa accade a Giuseppe? Il libro lo trasporta indietro di 50 anni  facendolo rivivere una guerra che aveva solo studiato sui libri di testo, di storia. Il sapore è completamente diverso. Emerge il racconto vivo della vita, non dei protagonisti, ma della terra, delle vibrazioni del cuore.

Gian Carlo Tusceri ci regala in poche pagine dense, che non dovrebbero essere né una di più né una di meno – fatto assai raro per gli scrittori – una visione succinta, impietosa e persino poetica della guerra, con un linguaggio schietto dove la metafora ferisce deliziando con un lirismo senza compiacimento. La strega della guerra è l’anima che torna e ritorna nei capitoli con il dolore e la fascinazione della perversione umana come la canzone “Generale”, con una sua bellezza anche se fa male.

E’ un affresco a tinte nitide, una lingua che distilla, non risparmia, senza indugi, senza compiacimento, senza grottesco: è il “Rigodon” italiano, specchio di quella vicenda assurda come il viaggio di Céline verso il nord della Francia, in compagnia del suo gatto. Anche qui c’è lo stridore tra la bellezza del paesaggio, un’isola, che sembra dimenticare e far dimenticare la violenza e la crudeltà della distrazione che colpisce a caso, senza poter distinguere le divise tedesche da quelle italiane.

La guerra si presta con difficoltà ad essere studiata, sembra suggerirci l’autore, al di là delle interpretazioni artefatte degli studiosi per ché è uno “sconcertante fenomeno di violenza collettiva organizzata”.  Le definizioni nel testo sono lapidarie, di una pregnanza che merita una seconda lettura eppure sgorgano con naturalezza, quasi con nonchalance. La guerra sembra costruirsi da una parte per essere esportata altrove – e forse è la forma più bieca – in certi luoghi trasuda invece per anni; in altri ancora viene dimenticata perché la pace possa dilatarsi e prendere possesso dello spazio come a voler farci credere che c’è davvero e durerà per sempre, sembra suggerire Tusceri.

La Maddalena, una sorta di roccaforte naturale, è un luogo dove si fa fatica a mantenere la memoria per la sua stessa natura perché “in questo ambiente, così istintivamente recuperato ogni volta alla vita, il sole e la luna di alternano, comunque, di norma, in attesa di una nuova guerra, a cui nessuno, giustamente vuole però pensare”.

Nel testo si avverte la tensione tra due pulsioni contraddittorie, la forza del ricordo, forse una qualche nostalgia perfino per quello che è stato anche se doloroso e la necessità di dimenticare per tornare a vivere.

Dopo questa premessa, quasi un elegia, il lettore viene calato nella cronaca storica dell’8 settembre del 1943, premessa di un sogno, anticamera di un’illusione. Alla Maddalena qualcuno rubò sette schegge di luna, “avvolte nell’ovatta calda, la strega della guerra aveva infilato strette, in bell’ordine, dentro il nastro della mitraglia di posizione, oleata sotto la rugiada, all’alba dell’otto settembre del quarantatre, giorno della Natività di Maria Vergine, dedicato dalla cristianità alla pace e alla riconciliazione tra i popoli”.  E’ una beffa la guerra che il linguaggio di Tusceri rivela in tutto il suo livore violento per cui la carica di una mitragliatrice diventa “il rosario di schegge lucenti”. E’ nell’ornare la guerra, la strega, che l’autore ne mostra il teschio come certi passi di Boris Vian de’ “L’écume des jours” dove un tumore è una ninfea del petto. C’è nelle immagini dello scrittore un rieccheggiare dell’estetica medioevale – pur nel tratto moderno e sintetico della lingua – che richiama i trionfi della morte e gli ossari di certe chiese che forse ha visitato.

C’è una meraviglia, uno stupore che non ha alcuna dolcezza, solo sconcerto per lo stridere della bellezza della luce che poi diventa bagliore di incendio vorace. E come un refrain il colore delle divise – della pelle o di altro – poco importa: è la vita che si è spenta, bruciando sette figli di mamma, a qualsiasi parrocchia o contrada appartenessero.

C’è un elemento che resta sfumato ma a chi è attento e abituato a leggere tra le righe non sfugge: dov’è Dio? Accanto a chi cammina? Un giorno si è riposato, il settimo, ma a’ La Maddalena era martedì e non sabato come si legge nelle Scritture. Forse il suo riposo dovremmo chiamarlo distrazione? L’autore sapientemente ed elegantemente sorvola, non prende posizione ma in due passaggi solleva il coperchio del processo a Dio.

Allo storico resta solo il compito di ricostruire i fatti, spesso purtroppo affidato alla memoria di sguardi disonesti perché “tutti i capitani indistintamente avevano bisogno di dimenticare, per potersi riproporre ancora vergini per nuovi posti di comando e…crollato il punto di equilibrio della memoria, si è resa per molto tempo indisponibile” la ricostruzione.

mercoledì 10 ottobre 2012

Il mito della bellezza nell'analisi di Nicola Posteraro


LA RESPONSABILITÀ PENALE DEL CHIRURGO ESTETICO NELLA QUARTA GENERAZIONE DEI DIRITTI. QUANTO INCIDE LA SPERSONALIZZAZIONE DELL’ATTO MEDICO SULLA NASCITA DEL NUOVO DIRITTO ALLA BELLEZZA?

di Nicola Posteraro
 
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA CALABRIA FACOLTÀ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE
TESI DI LAUREA

E’ la prima volta che mi trovo a recensire una tesi di laurea e per altro è del tutto insolito finché un lavoro accademico non giunga ad una pubblicazione sotto forma di saggio. Ci sono diverse ragioni per le quali ho deciso di dare spazio a questo pregevole lavoro nell’ambito del mio scaffale dei libri. L’auspicio è che un certo interesse si muova intorno ad un lavoro serio, profondo, originale, ben documentato quanto di piacevole lettura se trovasse una forma non tanto divulgativa, quanto editoriale in senso stretto. A mio parere meriterebbe una versione o uno stralcio orientato ad un pubblico colto o curioso orientato sull’attualità: il mito, l’ossessione e la rincorsa delle bellezza rappresentano uno strumento di lettura di questa società. Inoltre sarebbe interessante una pubblicazione di tipo saggistico in senso tradizionale, che superi però la forma meramente accademica, arricchendosi anche a livello grafico di elementi che possano facilitarne la lettura e per questo secondo momento orienterei il discorso all’aspetto giuridico. In tal modo il presente lavoro potrebbe essere un vero e proprio strumento di lavoro oltre che di indagine.
Tornando al mio interesse, devo premettere che sono stata interpellatta dall’autore laureando venuto a conoscenza di un mio interesse specifico in materia ed in particolare di un breve saggio, citato nel suo testo - GUIDANTONI, Chirurgia estetica, e culto della bellezza nella società contemporanea, in. Medicina e Morale, 1, 59, 1995 – tesi del corso di Perfezionamento in Bioetica al Policlinico Gemelli. Mi sono resa disponibile a dare un piccolo contributo, condividendo sostanzialmente la metodologia e scrupolosa e l’ottica, nonché molte delle conclusioni. Il lavoro di Posteraro, ancorché non asettico, è di grande equilibrio – sa fare bene il regista – rispetto al mio perché la struttura è sostanzialmente giuridica, là dove il mio scheletro e asse portante era essenzialmente filosofico. Trovo quindi questo lavoro complementare e certamente più morbido, attento a non prendere posizione senza un adeguato approfondimento.
Il testo si articola in te capitoli fondamentali dedicati, rispettivamente, al diritto alla salute e diritto alla bellezza nel quale si evidenzia l’autonomia imperante del singolo e, nello stesso tempo, il diktat della società omologante, secondo il quale la bellezza è soprattutto un dover essere, un adeguamento al modello imposto da vari fattori tra i quali il mercato (moda in primis); alla chirurgia estetica tra legittimità terapeutica e valore etico-giuridico (quanto incide il bello nella società estetizzante? Qual è l’impatto e quali le conseguenze sulla vita persona le e sociale?); e al diritto, in particolare al diritto penale tra consenso informato, obbligatorietà dei risultati. Nella conclusione l’autore si chiede se possa esistere un diritto alla bellezza.

La premessa dal quale parte, che sembra scontata ma è fondamentale, è che  l’uomo è da sempre alla ricerca della bellezza che fa rima con giovinezza, quasi un’inclinazione naturale solo che nel suo esasperarsi, si rovescia nel proprio opposto e diviene innaturale. Rispetto a tale ricerca, desiderio quasi ontologico dell’uomo, di per sé sano perché sinonimo di apertura alla vita – la bellezza stimola l’eros alla procreazione dunque alla continuità, alla gioia – il tema fondamentale rispetto alla cura medica della bellezza è la responsabilità e la questione centrale del consenso informato che in questo caso è più che mai determinante proprio perché siamo al di fuori della sfera dell’emergenza e dell’obiettivo terapeutico in senso stretto.

Andiamo per ordine. Lo scopo primario del lavoro di Posteraro è  di capire come debba atteggiarsi concretamente il diritto - e più specificamente quello penale - di fronte a delle valutazioni che involgano l’attività del chirurgo estetico, dunque la sua responsabilità, nell’ambito di uno dei più discussi rami della chirurgia plastica: quello della cura voluttuaria. L’autore ci conduce in un cammino per cercare di scoprire se sia giusto che nello studio di questa branca della medicina vadano operando criteri diversi di classificazione/definizione, ovvero se sia opportuno ricondurre la problematica dell’approfondimento dell’attività ad un unicum valutativo quale quello cui appartiene, evidentemente, anche l’ambito della chirurgia cosiddetta ordinaria. Come si nota nel corso del lavoro – concordo perfettamente - l’etica e il diritto sono strettamente connessi tra loro, nella realtà concreta e,  se la prima ci “assedia” (come cita l’autore); il secondo è il collante della società. Il problema anzi la difficoltà è che la società evolve e con essa certamente il diritto ma anche l’etica declinata come scienza dei costumi. Oggi impera una pericolosa quanto affascinante body culture fino all’estremizzazione del diritto alla bellezza che si profila nelle ultime pagine, non come un’aspirazione – sottolineo – quanto come una rivendicazione sindacale. Nel primo capitolo prende  in considerazione l’evoluzione interpretativa subíta dall’articolo 32 Cost., per evidenziare come già lo stesso dettato normativo in sé riesca a dare ampia rilevanza al concetto dell’autonomia salutare del paziente interessato, ponendolo a base dell’esplicazione concreta del costituzionalizzato (ampio) diritto alla salute.  

In particolare la critica dell’autore si appunta sulle problematiche connesse proprio alla riconosciuta ed esasperata indipendenza del singolo, sottolineando come l’idea della autodeterminazione abbia portato ad estremizzare teoriche visioni d‟insieme (come quelle sul consenso informato quale unica causa di giustificazione dell’atto medico penalmente rilevante). E’ importante e mi sembra interessante la ricognizione storica sull’evoluzione del diritto alla salute. Già Oscar Wilde parlava della salute come primo diritto della vita. Emergono a tal proposito due questioni cruciali e critiche: non sempre il consenso legittima l’attività medica. La troppa autonomia del paziente, paradossalmente ad una prima lettura, spersonalizza. In particolare l’autore sottolinea il potere pericoloso delle nuove tecnologie dal quale dipende la crisi dell’identità nell’era della esasperata medicina dei desideri. Secondo l’OMS la salute viene definita come assenza di malattia e infermità e il nostro ordinamento tutela così «anche lo stato psichico del cittadino», rendendo senz’altro possibile coinvolgere, nell’ottica della garanzia generale della sua salute, pure gli aspetti «interiori della vita del singolo per come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza». Per salute non si intende più, oggi, soltanto qualcosa di fine all’organicità, al corpo, e alla fisicità strettamente considerata; con essa, anzi, si fa riferimento anche alla mente del soggetto malato, analizzato come essere interagente (fisicamente e psicologicamente) con un ambiente circostante fatto di altri soggetti tutti appartenenti ad una specifica realtà biologica, interrelazionale e naturale: l’uomo non è più d’una semplice somma di organi fisici; è una persona. Questo sarebbe un bene, teoricamente. Al riguardo la tutela della Costituzione, in quest’ottica va assolutamente al di là della mera conservazione dell’integrità fisica, ed affianca, anzi, al «carattere statico di quest’ultima, un elemento dinamico e relazionale» che consente di superare ottimamente la precedente «coincidenza di salute ed integrità fisica».

La definizione dell’OMS finisce «inevitabilmente per conferire alla salute un connotato di soggettività, che cambia molto la concezione di salute e diritto alla salute. L’articolo 32 è stato considerato per lungo tempo solo nell’aspetto pubblicistico della salute, come mero interesse della collettività e mezzo di tutela della collettività stessa; esso veniva interpretato dai più come una mera disposizione custode d’una pubblica funzione, e lo si utilizzava solo per sottolineare l’importanza dell’integrità fisica del singolo quale fine e scopo dello Stato. Nell’ottica dell’esasperazione del livello di protezione della società rispetto a quello della libertà individuale, il singolo veniva posto, infatti, a servizio dei più nel mentre della realizzazione piena dei propri diritti individuali. Negli Anni Settanta del Novecento comincia a farsi strada questa nuova concezione finché il singolo diventa fulcro, il singolo è autonomo; il singolo decide, i terzi, esterni, possono solo accettare la sua scelta, pur non condividendola: essi rimangono estranei, nella generalità dei casi, al momento decisionale dell’individuo, e possono partecipare al momento formativo della sua volontà esclusivamente in qualità di spettatori passivamente considerati. Quanto al secondo limite, la nostra Carta Costituzionale specifica, al secondo comma dell’articolo 32, che la stessa ultima decisione del singolo potrà essere messa in discussione - e dunque valutata come irrilevante e inutilmente rilasciata- soltanto quando, sulla base di certe specifiche esigenze ben più preminenti, la legge ordinaria abbia disposto un cd. trattamento sanitario obbligatorio. Il consenso informato rappresenta il momento focale della stessa autorizzazione legislativa dell’attività medica. Il modello liberale che fa leva sull’autonomia del paziente mette in crisi il modello paternalistico della medicina tradizionale nel quale la scelta è promossa soprattutto dal medico. In entrambe le concezioni vi sono dei rischi. Tutto questo sembra un progresso. Solo che la troppa esasperata importanza che, sulla base dell’ormai riconosciuta autonomia sanitaria è stata attribuita nel tempo al consenso informato pone, ovviamente,  non poche problematiche etico-giuridiche. Il primo tipo di difficoltà lo si è rintracciato nell’ambito dei problemi che, da tempo, hanno interessato la cosiddetta liceità del trattamento medico chirurgico, quando si è configurato il consenso del’avente diritto quale presupposto indefettibile dell’attività sanitaria. La seconda problematica, invece, si è sviluppata proprio nell’ambito del rapporto medico-paziente che, da eccessivamente personalista quale è rischia, oggi, di divenire automatizzato, in un certo senso e degradato a mero superficiale momento di contorno dell’atto autonomo. Aumenta il rischio in caso di menomazioni. Quale responsabilità medica? La menomazione, danno in caso di scopo terapeutico esclusivo o prevalente è una cosa, altro in caso di presunto beneficio affidato solo alla volontà del paziente a scopo estetico. In questo modo il consenso sembrerebbe configurarsi, piuttosto, come un vero e proprio bene giuridico autonomo. L’autonomia del singolo va riconosciuta come fondamentale, senz’altro, nel momento decisorio; ed il suo consenso ricopre senza dubbio un ruolo di fondamentale importanza, nell’ambito dell’attività medica non urgente e/o necessitata/obbligata. Quello che sta succedendo è che il paziente diventi un semplice cliente che instaura un rapporto commerciale con il medico che vende prestazioni del quale è responsabile il soggetto richiedente. Il problema di fondo, in realtà, sta proprio nel fatto che un andamento del genere, pur garantendo la piena e libera partecipazione del solo paziente alle decisioni cliniche, si scontra con la pratica medica che, quotidianamente, dimostra, al contrario, il bisogno di dipendenza manifestato dal malato nei confronti del proprio medico. L’autore ci mette in guardia dal proiettandosi verso la più generale terapia del bisogno. E’ questa l’ottica della comodità, della convenienza e dell’indipendenza, evitando di stabilire un dialogo tra i due poli come in una relazione equilibrata. La medicina attuale perde la propria storica connotazione di arte medica per assumere, invece, quella più spersonalizzata e deresponsabilizzante di tecnica medica: essa si trova, oggi, a far fronte a pressanti richieste esterne di un «pubblico sofisticato», un pubblico che sa cosa vuole e pretende l’ottenimento di quel risultato specifico, per usare ancora una volta le parole del nostro autore.

In quest’ottica, il medico si trova spesso a dover rispondere a richieste che non sempre corrispondono a dei veri e propri bisogni umani, quanto piuttosto a dei meri sogni del soggetto paziente. Il progresso tecnico.scientifico ci ha sicuramente viziati, consentendoci di mirare sempre più proprio al raggiungimento pieno delle nostre ambizioni, quelle che un tempo apparivano essere irraggiungibili e che rimanevano sogni. Il problema, mette in guardia Posteraro, è che con il soddisfacimento del risultato richiesto non si annulla il desiderio ma si fortifica la spirale del perfezionismo e il paziente usa il proprio corpo come merce di scambio con gli altri: in tal senso, il corpo non è più una parte integrante dell’uomo, ma diventa un progetto su cui lavorare, un oggetto commerciale e commercializzabile, un insieme di cellule che, nella sua totalità, può essere suddiviso, sezionato, scoperto, rimescolato. Da sempre una certa concezione del corpo riflette una concezione del mondo, solo che ora c’è una progressiva riduzione dell’interezza della persona al suo corpo, una mercificazione dello stesso e un annullamento delle differenze tra l’io e l’altro. Si confondono non due coscienze incarnate ma due corpi manipolati e quindi potenzialmente scambiabili come due abiti alla moda della stessa taglia. Sfuma, con la grande forse eccessiva confidenza con la tecnologia, il confine tra naturale e artificiale; anche il medico da guaritore, diventa progressivamente un artista del corpo.

Nel secondo capitolo, di stringente attualità, analizza la malattia di una società estetizzata.

La coincidenza errata che più normalmente si vuole riconoscere è quella tra la chirurgia plastica generale e la chirurgia estetica in senso stretto; per molti infatti, parlare dell’una o dell’altra non fa differenza, e il chirurgo plastico, in quest’ottica, sarebbe tanto quello che ricostruisce la mammella dell’operato a seguito d‟un tumore, tanto quello che gli rifà il naso. In realtà, la distinzione esiste, ed è fondamentale: la chirurgia estetica, infatti, è semmai un ramo della plastica largamente considerata, e si pone nei suoi confronti come la species di un genus molto più ampio che ingloba in sé ben altri tipi di interventi plastici. Esistono almeno tre tipi di interventi: riparativi, ricostruttivi e non necessari, meramente estetici. Per fare chiarezza, è necessario ripercorrere le tappe storico-evolutive della chirurgia plastica, relativamente recente anche se il desiderio di avere un aspetto gradevole intervenendo su se stessi è connaturato all’uomo. E’ tra l’altro una parte molto curiosa dello studio. Con il Novecento, ma già nella seconda metà del’Ottocento, e l’introduzione dell’anestesia si cambia completamente la prospettiva: il piacere non passa necessariamente dal dolore. Il primo passo fu verso metodiche richieste per ringiovanire: nel corso del Novecento il punto focale della chirurgia estetica divenne proprio l’invecchiamento del viso, e ci si concentrò, in particolare, sullo studio di una serie di tecniche chirurgiche che consentissero di eliminare le rughe e i rilassamenti visibili. Pare infatti che tutta la carambola di interventi di lifting facciali, tuttora in piena evoluzione e successo, abbia avuto inizio proprio nel 1901. La chirurgia estetica, terminato il periodo dei conflitti mondiali, facendo tesoro degli sviluppi della pratica ricostruttiva in quel periodo avvenuti, tornò nuovamente in auge e andò specializzandosi grandemente, utilizzando le pratiche della ricostruzione per un fine uguale a quello della chirurgia riparativa, ma per un intento iniziale diverso da quello proprio di quest’ultima. Esiste naturalmente la difficoltà di stabilire la liceità della chirurgia puramente estetica e qui si intrecciano temi giuridici ad aspetti etici. Se in un primo tempo la chirurgia estetica veniva considerata appannaggio di ciarlatani, oggi la nozione di salute si è ampliata notevolmente comprendendo, come già accennato, il benessere psicologico che passa anche per l’accettazione del sé e quindi una maggiore facilità di relazionalità sociale. In tal senso la giurisprudenza ha seguito questa esigenza cercando una conciliazione. Secondo molti l’esigenza estetica fa parte integrante del benessere della persona e quindi è terapeutica anche se comporta un ‘sacrificio’ fisiologico: l’esempio più evidente è il cambiamento del sesso. Concessa la liceità di fare il possibile per sentirsi a proprio agio e al meglio nel corpo, da sempre oggetto di cultura come nella vita, c’è un’estremizzazione del valore della bellezza nella società attuale, che come sineddoche pone la parte per il tutto. Le ragioni affondano nelle premesse che hanno portato alla definizione della società contemporanea. «La società contemporanea», scrive Guidantoni, «presenta una sua particolarità nell’affrontare il tema della bellezza, ormai idolatrata a livello esteriore, a discapito dell’unitotalità della persona, e porta all’isolamento nel narcisismo, invece di rendere più accessibile la comunicazione». In questo senso, l’uomo dei nostri tempi si erge a creatore/fruitore d’un mondo costruito secondo la sua volontà, d‟un universo plasmato, modificato e, ancora, modificabile. Si rinchiude in degli schemi di perfezione che lo fanno sentire autonomo e indipendente,  ma che in realtà lo ingabbiano ancora di più nel momento della scelta, che poi tanto autonoma non è. Egli crede che con la forte considerazione del bello quale valore sociale, riesca a migliorare in sostanza i suoi rapporti con gli atri; in realtà, quest’atteggiamento di virtuosità estetica lo rende materialista e poco comunicativo, e lo porta a escludere senza mezzi termini la comunicazione vera, quella che, nel concreto, è fatta di naturalità. La bellezza viene così ad essere intesa sempre più come artificio rispetto alla Natura e non esaltazione della stessa. (Così GUIDANTONI, op. cit., pag. 81).

In questo contesto,  poi, anche i mass-media giocano un ruolo fondante, poiché si ergono a estensioni di progetti e fautori d’una società che si lascia abbindolare da un fare spasmodico e commerciale, e contribuiscono ad accrescere notevolmente il culto della fisicità e dell’ostentazione della bellezza alimentando fortemente il binomio inscindibile tra l’aspetto fisico dell’interessato e la vita sociale in cui si sviluppa e si dispiega la sua personalità. In altre parole, la ricerca del bello come necessario lo porta a desiderare una modifica che, in realtà, mai avrebbe auspicato, se non fosse stato portato a pensare socialmente in un certo modo. E’ una sorta di momento obbligato che, per rispetto nei confronti degli altri (e prima ancora di noi stessi) dobbiamo tenere in conto come probabile/possibile/utile/inevitabile: «l’uomo si svuota per servire la bellezza necessaria, ingannandosi con il mito della salute o dell’eros», per cui perfino una mamma che ha scelto di dar la vita, soffre e ha difficoltà ad accettare il proprio corpo. «L‟alternativa non rappresenta, infatti, una scelta reale: non aderire al mito della bellezza significa non entrare a far parte della vita sociale. La strategia che governa questa logica è di carattere economico, perché incentiva un consumismo ad altissima redditività». (Così GUIDANTONI, op. cit., pag. 83).

L’autore si addentra in ‘deviazioni’ quelle per cui l’estetica non è funzionale allo star bene ma è una risposta alla moda e al mercato, a partire dalla chirurgia estetica degli animali, nata in Brasile. Il culto della bellezza in una società di consumi, dice Malta, costringe a passi obbligati: non basta essere (diventare/ambire a diventare) belli, ma occorre essere belli come, assomigliare a: su questa premessa si gioca il valore della libertà personale, e, continua l’autore, «l’uomo è solo libero di scegliere quello che gli altri hanno già scelto per il suo destino».

 

La terza parte sulla quale non mi soffermerò non avendone competenza specifica ed essendo destinata ad un pubblico di addetti ai lavori, concerne la relazione tra aspetti giuridici e chirurgia estetica, a cominciare dal nucleo centrale del consenso informato. Tra gli argomenti di particolare interesse, il consenso dei figli minori e il ruolo dei genitori, in considerazione del fatto che ormai alla chirurgia estetica si avvicinino anche giovanissimi.

L’ultimo capitolo, che definirei ‘futurista’ si interroga sul presunto ‘Diritto alla bellezza’ che parte dalle considerazioni dell’antropologo inglese Edmonds, secondo il quale questo nuovo diritto dovrebbe trovare ormai un accoglimento nei nostri ordinamenti giuridici.

Le sue considerazioni partono dall’analisi della situazione socio-culturale del Brasile, dov’è fortemente attestata l’importanza assunta dalla bellezza nella società odierna. Dato per assodato che la società odierna viva d’estetica; e che l‟aspetto esteriore, quando gradevole, aiuti nelle relazioni, oltre che nell’ascesa sociale, cosa succede al singolo paziente brutto quando, non potendo esso economicamente accostarsi alla chirurgia estetica perché troppo cara, sia costretto a vivere col disagio fisico che l‟affligge, e dunque a rinunciare ad un miglioramento della propria vita relazionale? Qualcuno, facendo leva sull’idea di possibile costituzionalizzazione del diritto alla felicità, ritiene che l’aspirazione alla bellezza posso configurarsi come diritto alla bellezza, quindi iscriversi nella tutela. Ora un diritto riconosce un’oggettività particolarmente difficile nel caso della bellezza, che spesso è soggettiva e non riconducibile a canoni scientifici e standard che valgano per i più, sottolinea Guidantoni. Rispetto alla visione tradizionale romantica – è bello ciò che piace – si sta sostituendo l’omologazione della bellezza e in un modo violento e assurdo, legato all’antifunzionalità, alle richieste del mercato (in primis moda e spettacolo), ad una richiesta funzionale di una persona rispetto ad un ruolo. Siamo sicuri che questa pretesa debba essere tutelata con un diritto? Ma soprattutto siamo sicuri che la correzione estetica porti alla felicità?

In tal senso, si dovrebbe quindi anche istituire un "diritto alla ricchezza", in quanto ognuno dovrebbe essere ricco e non patire la sofferenza delle carenze. Se al tempo dei romani al popolo scontento veniva dato panem et circenses, la proposta di Edmonds sembra voler dare pulchritudinem et beatitudinem.

Molto interessante è lo spunto della necessità di una consulenza psicologica per sostenere chi crede che basti cambiare il proprio corpo per poter accedere alla felicità e questa è la grande illusione di una società alla deriva per la quale, almeno in certi ambiti l’equazione regge, almeno in alcuni settori lavorativi.
 
Università degli Studi della Calabria
Facoltà di Economia
Laurea in Giurisprudenza

martedì 9 ottobre 2012

"Tunisi, taxi di sola andata" ospite della libreria Nina di Pierasanta. Domenica 7 ottobre 2012



Domenica 7 ottobre 2012 - Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" a Pietrasanta, presso la libreria Nina. Insieme all'autrice, Ilaria Guidantoni, lo scrittore Emilio Borelli.