lunedì 30 settembre 2013

Attraversare un tunnel buio


Anoressia delle passioni

di Serena Libertà

Un libro esile nel formato che scivola rapido alla lettura: lo stile è piano, quasi soave, una conversazione, anzi una confessione che arriva ponderata, meditata, con la giusta distanza degli anni che la separano da quanto narrato. Eppure il testo colpisce fino alle lacrime. Per un periodo mi sono occupata di queste tematiche professionalmente ma non ricordo una nuda testimonianza così dolce e penetrante di tanti drammi che ho letto. Probabilmente è proprio il narrare senza orpelli, con una grande umiltà ad avermi colpita. Serena, lo pseudonimo con il quale la protagonista scrive la propria storia, è uscita dal tunnel dell’anoressia che l’ha condotta quasi in fin di vita e gradualmente, non senza fatica, è resuscitata, in gran parte per merito della fede e dell’incontro con una comunità religiosa ma non parla di miracolo. Mi permetto di dire non perché non ci abbia creduto profondamente ma perché con pudore non osa nominare l’incontro con Dio, anzi il suo abbraccio, come un miracolo,; vuole semplicemente essere testimone di quella che è stata la sua strada. La scrittura rappresenta per Serena nella fase acuta della malattia – di quella malattia dell’anima e sociale insieme, che non è una semplice questione di cibo e di peso – l’unica consolazione, il dialogo con l’amico invisibile come lei che non può vederla né ferirla con il suo sguardo inquisitorio ma solo ascoltarla. Di ascolto ha bisogno Serena e oggi scrive per accogliere e ascoltare altri e altre che sono ancora nel tunnel, quello senza pareti e senza fine nel quale ha brancolato per tanto tempo. La scrittura è conforto, strumento di guarigione e bisogno insopprimibile di raccontare e testimoniare. Tra le righe si evince che l’autrice non si sente unica e speciale e non vuole raccontare se stessa ma un vissuto, far sentire le emozioni e quello che ha imparato attraverso il dolore. Sono tante le suggestioni del testo e vorrei ripercorrerle in successione a cominciare dalla paura quel sentimento che sembra dominare la sua infanzia: è la storia di una bambina impaurita che diventa trasparente perché qualcuno si accorga di lei. E’ il paradosso di una comunicazione che non ha parole ma solo lacrime e fame, fragile, troppo fragile. Nella privazione del cibo trova la risposta al suo piacere negato. C’è un’analisi lucida e quasi spietata della famiglia, in certi punti tagliente, in altri commovente e di grande riconoscenza. C’è la consapevolezza amara quanto realistica che il dolore abbia una propria utilità – il dolore che uccide, atterra, strazia, è stato fonte di vita, di una vita diversa e di un amore che non avevo mai provato, scrive -  e perfino la morte, per aprire le porte della verità. In questo senso è struggente la lettera al padre quando dice C’è voluto il dolore per amarti.

In fondo anche dell’anoressia racconta che forse le serviva per andare da qualche parte. Ed è andata lontana, nell’amore con il quale ha condiviso un’esperienza di crescita spirituale e per essere diventata tre volte mamma. E’ un libro che si legge d’un fiato e che riafferma il primato dell’amore, come accoglienza, ascolto e perdono. E’ un messaggio forte, impegnativo ma anche in questo caso, offerto da Serena con grande garbo e discrezione.

Anoressia delle passioni

di Serena Libertà

Albeggi Edizioni

ConVivo

10,00 euro

Sabato 28 settembre 2013 - Festival della Letteratura di viaggio, Villa Celimontana, Roma

Da sinistra Riccardo Romani, giornalista e scrittore; la conduttrice dell'incontro Giovanna Zucconi; Paola Caridi, giornalista e scrittrice; Ilaria Guidantoni; Dino Baldi, filologo classico.

Piccola guerra perfetta di Elvira Dones

Prefazione di Roberto Saviano, La guerra delle donne

I libri sono prima di tutto un incontro e in questo caso la mia convinzione è doppiamente vera. Mi è stato regalato dalla Professoressa Daniela Bini della quale potete leggere un contributo sul mio blog Il Chiasmo delle idee, “in ricordo di una giornata che ci ha unite”, leggo nella dedica. Una giornata particolare, un dibattito, un viaggio nel femminile armato negli Anni di piombo della lotta armata fino alle rivoluzioni di oggi, quella tunisina in particolare. E’ stato l’incontro a due voci, di donne, che dalla mia presentazione a Milano di un libro, si sono parlate in uno stesso linguaggio per confrontarsi su aspetti non così scontati del femminile, con una riflessione: il femminile non è per sole donne ma soprattutto per gli uomini e appartiene a tutti in misura e con specifiche diverse, come l’archetipo del maschile. Una lunga premessa per dire che la mia lettura di questo libro è stata guidata da un’aspettativa, quella di trovare una continuazione al mio incontro sul femminile guerriero e sull’essere donna nelle rivoluzioni. Questa volta nella guerra.
Di fronte a questo libro, scritto in modo asciutto, senza mediazioni, talvolta come io mi immagino possa scrivere prevalentemente una penna maschile, non mio sento di scrivere un commento che abbia il sapore di una critica letteraria, ché già è sufficiente il testo di Roberto Saviano nella Prefazione. Concordo nel dire con lui che non è un romanzo sulla guerra o della guerra ma è la guerra stessa, vissuta dalla parte delle donne, delle donne vittime, di una violenza che non si dimentica e che non fa parte della battaglia: è lo stupro programmato, l’umiliazione; ben al di là del dolore della perdita dei propri cari e della fame che fanno parte ontologicamente della guerra da sempre. In effetti è una prospettiva insolita perché di solito la guerra è raccontata dagli uomini o da quelle poche donne che la scelgono come protagoniste, le partigiane, le rivoluzionarie, le infermiere e i medici, i reporter. Questa volta no: sono le donne in prima linea ma loro malgrado perché la casa non è più una barriera.


Editoriaraba - La fantascienza nella letteratura araba: quel genere che non ti aspetti!

Oggi puntata speciale sul blog. Io (nel testo Ea) e Marcia L. Qualey (nel testo AL) di Arabic Literature (in English) abbiamo intervistato Ada Barbaro sul suo libro “La fantascienza nella letteratura araba”, appena uscito per Carocci editore. È il primo testo in lingua occidentale che si occupa di questo argomento. Ne emerge il profilo di un genere letterario ricchissimo, incredibile e assolutamente poco conosciuto che non potrà che appassionare tutti i lettori (anche i non specialisti). Su Arabic Literature (in English) la versione in inglese della stessa intervistatrice. Coincidenza vuole, inoltre, che il 2 ottobre si tenga a Londra una conferenza proprio sul ruolo della fantascienza in arabo. Su Editoriaraba il programma.  

Ea: Sfatiamo un mito: la fantascienza come genere letterario in arabo c’è sempre stato o si è sviluppato solo recentemente? 
Come tutti i generi letterari, anche la fantascienza sorge con la commistione di diversi elementi. Di fantascienza nel mondo arabo parliamo sicuramente con ritardo rispetto a quella in lingua inglese. E qui va fatto un discorso un po’, se vogliamo, di natura post-coloniale: l’arrivo della fantascienza in lingua inglese arriva in concomitanza con lo sviluppo industriale, sviluppo che arriva successivamente nei paesi arabi. In più anche la forma del romanzo è arrivata in ritardo, essendo il romanzo un genere di importazione. Possiamo datare la nascita della fantascienza agli anni Cinquanta, all’incirca. Si tratta comunque di tematiche nuove che si innestano su un sostrato che già appartiene al mondo arabo, come avviene anche per la fantascienza in inglese o francese: è un genere che non nasce all’improvviso. Nel libro trova spazio proprio una parte dedicata alla proto-fantascienza: sono cioè andata alla ricerca di quegli elementi che possono essere stati presi in considerazione dagli autori moderni, che li hanno poi rielaborati, e hanno fatto della fantascienza non un genere esclusivamente di importazione. 

AL: Quali sono i testi che hanno maggiormente influenzato questo genere: i classici, le maqamat, i viaggi nel tempo o le storie fantastiche contenute nelle Mille e una Notte? O più di tutti è stata la fantascienza occidentale? 
Le fonti arabe sono innanzitutto le “mirabilia”, quindi i resoconti di viaggio, le vicende legate al mondo degli animali o le cosmografie dell’epoca classica. Già nell’epoca della Jahiliyya ci si interrogava su tutto ciò che era strano e su cui non si riusciva a dare spiegazione: dietro fenomeni naturali come la pioggia improvvisa, il temporale, il cambiamento delle stagioni nascevano dei racconti con cui cui si immaginava che ci fossero delle realtà “altre” che governavano tutti questi eventi. Oltre alle mirabilia poi ci sono i viaggi di Sindbad, in uno dei quali appare una cosa molto curiosa che poi verrà ripresa anche dalle Mille e una Notte, ovvero il confronto tra Sindbad terrestre e Sindbad marinaio, che mettono a paragone le proprie società. Ne Le Mille e una Notte invece, c’è la vicenda del cavallo d’ebano, o quella dell’arciere di bronzo, che attira le strutture portanti in ferro delle navi di cui poi quindi resta solo  il legno. Poi ci sono anche opere filosofiche: io ad esempio ho citato il filosofo Ibn Tufayl e la sua opera Hayy ibn Yaqzan dove l’autore immagina che ci sia un’isola deserta in cui – e qui qualcuno vi ha voluto leggere una sorta di antenato di Tarzan o di Robinson Crusoe, che fantascienza non sono! – stia crescendo un bambino che ha appreso dalla natura le capacità migliori dell’essere umano. Dietro questo racconto c’è quindi una visione utopistica. Nel libro faccio un excursus di questo tipo fino a giungere alla cosa più importante legata alla fantascienza, ovvero il romanzo utopistico: e qui siamo già nell’Ottocento, con al-Manfaluti e al-Kawakibi che parla della Mecca e di un’immaginaria conferenza tenuta dai rappresentanti delle religioni in cui si decideva il futuro delle nazioni. Si tratta qui dell’utopia di poter appianare situazioni che nella realtà risultano diverse e difficili da gestire. Poi c’è Farah Antun con Le Tre Città, o la piéceteatrale dell’autore egiziano Ahmad Ra’if che si intitola La quinta dimensione, in cui l’autore affronta tematiche molto interessanti: addirittura uno scontro tipo Guerra Fredda in cui immagina la ricomposizione del conflitto tra USA e URSS. Su tutti questi elementi si innesta il romanzo fantascientifico. Anche se è comunque spesso difficile distinguere tra fantasy, fantasia, fiaba, mirabilia. Non dico che tutto questo sia fantascienza: è vero però che in qualunque cultura, se si è sviluppata la fantascienza, questa ha attinto dal proprio patrimonio. C’è addirittura qualcuno che aveva letto nel Corano dei segni di fantascienza, opinioni da cui mi sono tenuta lontana. Ad esempio nella Sura delle Api si parla di un Dio sempre creante: se ha creato questo, dicono, chissà quali altri mondi starà creando? Oppure pensiamo al concetto di “ghayb”, assente, che ricorre nel Corano: qualcuno lo ha considerato come un qualcosa di nascosto, di invisibile, di arcano. Per quanto riguarda invece le influenze della fantascienza occidentale, bisogna innanzitutto dire che molti autori erano in grado di leggere perfettamente l’inglese. È stata la prima fantascienza inglese ad averli influenzati: Wells, Huxley e Orwell, a cui lo scrittore egiziano Tawfiq al-Hakim si è molto ispirato. Da questo, ad esempio, è nata la sua inaspettata opera teatrale, anche tradotta in italiano,Viaggio nel futuro (traduzione e cura di A. Borruso, Liceo Ginnasio “Gian Giacomo Adria”, Mazzara del Vallo, 1988). Nel libro ho disegnato uno schema in cui paragono alcune delle tematiche affrontate da Orwell che trovano riscontro nell’opera dell’autore egiziano. Molti elementi di 1984 vanno di pari passo con alcune parti della pièce di al-Hakim. 

AL: Quali sono i temi ricorrenti: viaggi verso altri pianeti, distopia, viaggi nel tempo? E perché pensi sia così? 
Il viaggio nel tempo è sicuramente il tema più usato, e qui emerge senza dubbio una delle specificità della letteratura araba: il concetto del tempo, che nel mondo arabo-islamico si declina in modo differente rispetto al mondo occidentale. Parliamo di una società basata sulla ritualità, dove la scansione della giornata avviene a seconda della preghiera. Insomma, il tempo ha un valore importante ed è sempre controllato dal Sempiterno, per cui voler attentare a questo controllo, voler oltrepassare i limiti imposti da Dio, è un modo di riappropriarsi del proprio tempo, di superare la visione, molto stereotipata, degli arabi che sono soggetti al volere di Dio, quando invece possono ribellarsi. È una vera e propria forma di trasgressione quella di voler oltrepassare le barriere temporali, ma molto spesso, da questo punto di vista, i romanzi fantascientifici hanno un finale negativo. Anche se i protagonisti riescono a conquistare il tempo, e in questo senso la conquista maggiore è l’immortalità – e pensiamo quanto questa cosa possa essere blasfema – il risultato alla fine è sempre negativo. Alla fine dei romanzi c’è sempre qualcosa che distrugge tutto. È come se si volesse cancellare ciò che l’uomo, vinto dalla sete di potere, ha voluto fare. C’è il senso di voler eliminare il cattivo esempio. Per tornare alla tua domanda quindi, i temi principalmente esplorati sono i viaggi nel tempo e quelli verso altri pianeti. Nel libro infatti individuo come chiavi di lettura proprio lo Spazio e il Tempo e riporto diversi esempi di questi autori. Per quanto riguarda l’immortalità, questa può essere raggiunta con l’elisir di lunga vita, l’ibernazione o le operazioni sulle cellule. La scrittrice kuwaitiana Tibah Ahmad al-Ibrahim, di cui io parlo, ha scritto un romanzo che si chiama L’uomo sbiadito, titolo che fa riferimento al pallore di un uomo che si è addormentato grazie a degli esperimenti e poi si è risvegliato dopo molto tempo. Naturalmente nessuno lo riconosce anche se lui è rimasto uguale. Hai presente Il curioso caso di Benjamin Button? Ecco lui è rimasto uguale, però ha perso tutto, non si ricorda nulla e allora comincia ad apprendere, ma lo fa in maniera meccanica. Viene educato alla stregua di un bambino, ma è ovviamente più veloce. Si nutre di libri e nelle sue relazioni con gli altri mette a fuoco tanti paradossi della società araba. 

Ea: Quali sono gli autori e le opere più rappresentativi del genere? 
Il padre della fantascienza araba è in assoluto Nihad Sharif, un autore egiziano morto da poco. La sua opera Qahirah al-Zaman (Il vincitore del tempo) è considerata una pietra miliare nella produzione fantascientifica. E poi ci sono altri autori che pur non essendosi dedicati interamente alla fantascienza ad un certo punto hanno avuto una breve parentesi fantascientifica: ad esempio Sabri Musa, scrittore egiziano che ha scritto una distopia (tema che nasce con lui nella letteratura araba). La cosa più interessante che ho rilevato è stata la presenza di scrittori di fantascienza anche in terre che uno penserebbe ancora ancorate a sistemi così tradizionali che non è possibile veder sorgere la fantascienza. Ad esempio Yemen e Mauritania, anche se su quest’ultimo paese già aveva scritto Isabella Camera d’Afflitto in un numero speciale di “Oriente moderno” dedicato alla letteratura del Maghreb, in cui descrive quest’opera di un autore mauritano che si chiama La città dei venti, opera assolutamente fantascientifica. L’autore yemenita invece è piuttosto famoso e si chiama Abd al-Nasser Mujalli: ha scritto un romanzo dal titolo Geografia dell’acqua in cui descrive la scomparsa sulla Terra dell’acqua a causa di un “pianeta bianco” che si sta sciogliendo per i gas prodotti dalla Terra e i cui abitanti si vendicano dei terrestri togliendo loro l’acqua. È quindi un romanzo “ecologista”, uno dei filoni della produzione fantascientifica. Poi c’è il siriano Talib Umran, autore molto prolifico che ha addirittura una collana fantascientifica tutta sua e di cui parlo soprattutto in relazione alla sua produzione post-11 Settembre. E qui l’elemento fantapolitico è molto più evidente. È bene dire che si tratta, mi riferisco agli autori contemporanei, di scrittori intorno ai 40-50 anni che hanno alle spalle quasi tutti una formazione scientifica. 

Ea: È un filone ricchissimo quindi… 
Assolutamente. Nel libro accenno a molti romanzi e autori, ma ho scelto di soffermarmi su alcuni che mi sembravano più rappresentativi e di forte impatto anche per quanto riguarda la censura. Mentre scrivevo mi rendevo conto che non sarei riuscita ad occuparmi di tutto, ma non essendoci un saggio che tratta dell’argomento, neanche in inglese, ho voluto scrivere un testo che fosse un po’ un quadro di riferimento generale, per chiunque trovi difficoltà a reperire le fonti in arabo e necessiti di un manuale di riferimento. Ea: Che lingua usano questi scrittori nei loro romanzi: arabo classico, dialetto, neologismi, calchi dalle lingue straniere…? Tutti scrivono in classico, non ho rilevato espressioni dialettali, ma soltanto una ricerca linguistica molto profonda che nasce dall’esigenza di adattare ai cambiamenti anche l’arabo. Nel libro dedico proprio una parte alla lingua e cito qualche neologismo: ce ne sono molti e tutti interessanti. Pensiamo al termine “fantascienza” e a come è stato reso in arabo, cioè al-khayal al-ilmi, ovvero l’immaginazione scientifica. O a “cyberpunk” che è diventato al-saybir bank. O pensiamo a “distopia”, che è diventato naqid al-yutubiya, ovvero “l’opposto dell’utopia”. Ci sono degli enormi sforzi linguistici in questo campo: ci troviamo di fronte al rinnovamento della lingua che è tipico del Modern Standard Arabic che porta a coniare nuovi termini partendo proprio dalle radici arabe. 

AL: Hai trovato un modo per capire quale sia la popolarità dei titoli di fantascienza in arabo? Quali sono i titoli più venduti/piratati. 
Cercando informazioni sull’argomento e sugli autori, in quei paesi arabi in cui ho svolto la mia ricerca, mi sono accorta che in realtà c’è poca informazione tra i lettori. Questo succede un po’ anche perché la fantascienza è comunque una scoperta recente anche per il lettore arabo. Oggi ad esempio si trovano online solo i titoli più recenti, come Ajwan, della scrittrice emiratina Noura al-Noman o Bab al-Khorouj, dello scrittore egiziano Ezzedine Choukri Fishere,Utopia di Ahmad Khaled Tawfiq e i testi di Talib Umran. Qualche notizia la si reperisce dai pochi blog sull’argomento. Anche a livello accademico questa produzione è poco conosciuta. Ci saranno state 3-4 conferenze sulla fantascienza nella letteratura araba: una è stata organizzata nel 2010 al Cairo, in cui c’era un panel dedicato al tema, ma lo si poneva nell’ambito del filone sperimentale. Ancora quindi non è un genere molto accreditato. Ea: Chi legge oggi la fantascienza in arabo? Soprattutto i giovani, maschi e femmine, che sono anche lettori di fantascienza occidentale. Ci sono tante traduzioni sia della prima fantascienza che di quella più recente, anche se, come ben si sa, i giovani arabi riescono a leggere agevolmente anche in lingua straniera. È un buon segno comunque che le case editrici pubblichino traduzioni, perché  vuol dire che c’è domanda di libri e anche una certa attenzione a questo filone. È vero però che la produzione locale in arabo rimane ancora un po’ ai margini. 


AL: Ci sono differenze regionali? Cioè, cosa significa fantascienza in Marocco, Siria, Emirati o Egitto? Come si esprime questa produzione? 
L’Egitto è senza dubbio il centro più importante, come spesso accade. Io non ho rilevato grandissime differenze regionali tranne per quei paesi che sono più legati alla tradizione. Prendiamo lo Yemen, di cui parlo in relazione a Mujalli: questo autore vive negli Stati Uniti e sicuramente è stato influenzato dalla società statunitense, cosmopolita e iper tecnologica. Però la sua fantascienza è tipicamente legata al contesto yemenita. Ad esempio è molto forte la presenza della “profezia”. In uno dei suo libri, quando l’umano viene rapito dall’extraterrestre, che lo bacchetta per come lui e tutti gli umani stanno maltrattando la Terra, lui stava nel bel mezzo di una serata con i suoi amici, a raccontarsi storie della tradizione masticando il qat. E sai qual è la prima cosa che gli fanno fare questi marziani quando lo accolgono? Un bel bagno perché deve purificarsi! Quando io leggo un libro così, so perfettamente dove sono, si percepisce molto bene qual è il contesto culturale. E trovo molto interessante il contrasto tra lo sfondo tradizionale e l’incontro con il marziano dalla pelle verde. Le uniche differenze regionali che ho riscontrato sono principalmente dovute al fatto che in alcune parti del mondo arabo la fantascienza ha trovato un fermento culturale che altrove non c’era. Ea: Tra di loro questi autori si conoscono? È esistita per qualche numero una rivista letteraria dedicata alla fantascienza: la Majallat al-Khayal al-Ilmi, nata in Siria, in cui il comitato scientifico era composto in buona parte dagli autori di cui io parlo, che provengono da Egitto, Palestina, Marocco, Libano, Siria. Il primo numero è stato pubblicato ad agosto 2008. Poi ho trovato anche molti studi in arabo in cui gli autori si citano e si studiano a vicenda. 

AL: E’ possibile fare un paragone tra la fantascienza prodotta in arabo e quella delle altre lingue regionali (urdu, malese, persiano, turco, ebraico)? 
Non ne ho notizia in realtà. Me ne sono vagamente interessata in quanto fenomeno di letteratura post-coloniale, ma non ho guardato nell’ambito di questo Terzo Mondo. Anche qui, come per il mondo arabo, nelle zone di ritardo nello sviluppo la fantascienza arriva dopo e va inquadrata nel periodo del post-colonialismo e quindi con l’arrivo dell’industrializzazione. Quando ho parlato della proto-fantascienza, mi sono occupata del Poema Celeste del padre fondatore del Pakistan, Mohammad Iqbal, che ad un certo punto fa incontrare il sufi persiano Rumi con un dotto marziano! 

AL: Perché questo genere è di particolare interesse rispetto ad esempio alla letteratura fantastica, ai gialli o i thriller? 
Per me la fantascienza ha una marcia in più perché ha un valore “didattico”: nel senso che istruisce e ammonisce, ma soprattutto è un genere letterario di forte denuncia, cosa che per esempio la detective story non fa. Il romanzo noir lo è solo in parte. Anche il thriller è un genere nuovo però non vi leggo lo stesso livello di denuncia: questi autori parlano di qualcosa che già conosciamo e la denuncia avviene in maniera più aperta. Per me lettore è chiaro, non ho dubbi su quello che sto leggendo, mentre la fantascienza è più sottile. Gli autori fantascientifici usano invece degli schemi narrativi per dire “altro” che forse può sfuggire al lettore più disattento. È un genere che costringe a pensare di più, coinvolge di più. Inoltre con la fantascienza si abbattono, sempre sottilmente, molti tabù delle società islamiche, come ad esempio il sesso. Il signore venuto dal campo di spinaci di Sabri Musa, che è una distopia, affronta chiaramente il tema del sesso e lo fa in maniera abbastanza esplicita, ma che sfugge comunque ad una lettura disattenta. Ma molti di questi autori criticano aspramente la società. In un racconto fantascientifico scritto da al-Hakim, che si chiama Nell’anno del milione, lo scrittore immagina che l’uomo abbia perso tutte le sue prerogative umane: la riproduzione avviene in laboratorio, la decapitazione avviene tramite un “cambio” di testa. Naturalmente è facile immaginare come un personaggio importante come Tawfiq al-Hakim si sia servito della fantascienza come modo per protestare contro il regime dell’epoca, e soprattutto contro la pena di morte. 

Ea: Sono stati censurati questi romanzi? 
No, perché non si arrivava a capire cosa in realtà volessero dire. 

Ea: Pensi che come genere possa trovare un pubblico di lettori anche in Occidente? E in Italia? 
E' un genere che potrebbe davvero incuriosire e abbattere gli stereotipi che ancora ci sono sul mondo arabo. Per fortuna in parte questa fase è stata superata e adesso le pubblicazioni sull’argomento sono copiosissime. Per tornare alla tua domanda, vorrei che si traducesse qualche autore di fantascienza, e mi piacerebbe che Nihad Sharif avesse il suo giusto riconoscimento. Il vincitore del tempo potrebbe essere una buona scelta, anche se forse è un po’ datato, perché è stato scritto negli anni Sessanta. O lo scrittore yemenita, il suo Geografia dell’acqua è particolarissimo. 

Ea: Najib Mahfouz aveva detto che avrebbe voluto leggere più fantascienza in arabo, forse perché nella fantascienza c’è un collegamento molto forte con la società, la tecnologia e il progresso. Secondo te la fantascienza in arabo oggi può essere un modo per immaginare un futuro diverso?
Assolutamente. La fantascienza crea degli spazi dove il lettore può trovare riscontro sia delle sue paure nei confronti del progresso, che talvolta è minaccioso, ma offre anche un’ancora di salvezza. Dà la possibilità di intravedere la realizzazione di “altro”, la composizione di conflitti che nella realtà risulta difficile comporre, un’immagine del rapporto con l’altro, in questo caso l’alieno: nei romanzi all’inizio l’umano è sempre molto restio a stringere rapporti con lui perché è proprio il confronto con l’altro che spaventa. E qui forse gli autori vogliono mostrarci qualcosa a cui anche loro è stato soggetti, dunque il rapporto con l’Occidente, la necessità di abbattere tabù, i cliché. Nei mondi fantascientifici si immaginano rapporti che nella realtà non ci sono, possibilità di mondi e società futuri e utopici, regolati da giustizia e buon governo. Per me la fantascienza in arabo, più che legata al progresso, rappresenta un rifugio per il lettore, che magari si trova in una realtà dove la società che cambia lo travolge, però lui alla fine sa che questi sviluppi porteranno al meglio. Ma la fantascienza aiuta anche il lettore a rivedere anche gli errori che ha commesso: perché il progresso affascina e ti travolge, ma ti costringe anche a sgomitare per raggiungere il successo, a superare delle tue convinzioni e mettere in discussione i tuoi valori. Leggere in questi romanzi la proiezione di società future in cui si giunge a una disumanizzazione, a una perdita dei sentimenti e dei valori più puri, costringe il lettore a ripensare su quanto ha fatto e ad evitare di commettere gli stessi errori in futuro. Nihad Sharif parla del “valore vitale della fantascienza” e la definisce la “letteratura del futuro, uno spazio di condivisione”. Per lui era un mezzo per creare dibattiti su argomenti di importanza vitale e dare la possibilità di parlarne in una forma del tutto inedita. (Chiara Comito e Marcia L. Qualey) _________________________________ 
Ada Barbaro è assegnista di ricerca presso l’Istituto italiano di studi orientali della Sapienza – Università di Roma. Docente a contratto di Lingua e letteratura araba in diversi atenei, ha pubblicato traduzioni e scritto saggi sulla narrativa araba moderna e contemporanea.

giovedì 26 settembre 2013

Editoriaraba - “Gli odori di Marie Claire” al Festival di Lucera: l’amore, una cosa normale

Silvia Moresi domenica scorsa è andata a Lucera (anche per conto di editoriaraba) per assistere alla presentazione del romanzo Gli odori di Marie Claire, dello scrittore tunisino Habib Selmi, il quale sfortunatamente era malato e non ha potuto presenziare all’evento. C’era però la sua traduttrice, Elisabetta Bartuli.

di Silvia Moresi*

Domenica scorsa si è conclusa l’undicesima edizione del “Festival della Letteratura Mediterranea”, tenutosi a Lucera dal 18 al 22 settembre. Quest’anno gli organizzatori hanno scelto, come tema dell’evento, l’espressione: “L’ironia, una cosa seria”, a voler sottolineare il ruolo fondamentale che l’ironia può svolgere, in letteratura (e non solo), nell’affrontare e descrivere le complesse problematiche che da anni interessano il Mediterraneo.

Nella giornata conclusiva del festival, intitolata “L’amore, non una cosa seria”, è stato presentato in anteprima il romanzo Gli odori di Marie Claire (Mesogea, 2013) dello scrittore tunisino Habib Selmi che purtroppo non era presente a causa di alcuni problemi di salute.

Il libro, presentato dalla traduttrice, la professoressa Elisabetta Bartuli, e da Anita Magno, della casa editrice Mesogea, è l’unico romanzo dello scrittore tunisino ad essere stato tradotto in italiano.

L’eccezionalità di un autore come Selmi, ha fatto notare la professoressa Bartuli, è rintracciabile immediatamente in due aspetti: è uno dei pochi scrittori arabi che, pur essendosi trasferito da anni in Europa (vive infatti in Francia dal 1985), continua a scrivere in arabo ed è, inoltre, l’unico romanziere tunisino tradotto dall’arabo in italiano, dopo lo scrittore ‘Ali al-Du’aji con In giro per i caffè del Mediterraneo, scritto nel 1935 e tradotto in italiano da I. Camera d’Afflitto (Abramo edizioni, 1995).

Gli odori di Marie Claire racconta la storia d’amore tra il tunisino Mahfudh, emigrato in Francia per studio, e Marie Claire, una giovane donna francese. Durante tutto il romanzo non succede nulla di eccezionale: Selmi narra dettagliatamente la quotidianità di questa coppia dal loro primo incontro fino alla fine del rapporto.

Un racconto banale? Al contrario.

La forza del romanzo è data proprio dalla semplicità della storia in cui tutti possono riconoscersi, ritrovando atteggiamenti e dialoghi di una qualunque coppia, e dalla scrittura di Selmi, una “lingua parlata” ma elegante. Sono esattamente questi due elementi, secondo la professoressa Bartuli, a classificare un romanzo come “buona letteratura”. In effetti, senza accorgervene, presi dalla curiosità, terminerete il libro in qualche ora!

Gli odori di Marie Claire è un libro scritto da un arabo, in arabo, per un pubblico arabo, quindi ciò che leggiamo è scevro dai soliti pregiudizi o da quell’esotismo a volte caro ad alcuni lettori europei. La relazione tra i protagonisti viene descritta senza dar troppo peso alle diverse appartenenze e le difficoltà incontrate da Mahfudh e Marie Claire, che mettono fine al loro rapporto, sono le incomprensioni che appartengono ad ogni coppia e che derivano certamente da alcune incompatibilità per lo più caratteriali.

Quello che poteva essere un romanzo tutto incentrato sullo scontro delle grandi ideologie e contraddizioni legate al periodo coloniale francese è, invece, un delicato racconto dei piccoli e grandi scontri quotidiani che solo in parte derivano da diversità culturali.

Selmi ha un “doppio sguardo”, come ha affermato Elisabetta Bartuli a Lucera: guarda se stesso con “occhio francese” per capire cosa i francesi possano notare in lui di sconveniente, e guarda i francesi, incarnati da Marie Claire, con “occhio tunisino”.

Il rito della colazione, la mania di Marie Claire per le uscite serali al ristorante e la sua frenesia per la progettazione delle vacanze estive, sono abitudini sconosciute e incomprensibili per Mahfudh, che viene da un piccolo villaggio della campagna tunisina: “A me l’unica opzione che dà davvero fastidio è mangiare al ristorante. Ancora adesso non mi riesce di capire tutta questa frenesia di celebrare collettivamente il cibo”.

Ma, a pensarci bene, non sono questi i piccoli temi su cui discute anche la maggior parte delle coppie “non interculturali”?

Argomenti complessi come l’immigrazione o le coppie miste sono dunque affrontati da Habib Selmi con ironia ma, soprattutto, con la normalità dei gesti quotidiani, attraverso i quali Mahfhdh e Marie Claire vengono rappresentati nella loro interezza di individui, con tutte le loro fragilità e le loro debolezze che vanno al di là di ogni appartenenza culturale.

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* Silvia Moresi è laureata in Lingua e Letteratura araba presso l’Università degli Studi di Bari con una tesi in filosofia islamica. Nel 2006 ha conseguito a Roma il diploma in “Funzioni internazionali” presso “la Società Italiana per l’Organizzazione internazionale” (S.I.O.I), con una lavoro sui diritti umani in Palestina. Nel 2008, ha conseguito la qualifica regionale di “Mediatrice interculturale” e, successivamente, ha collaborato con il CIR (Consiglio Italiano Rifugiati). Dal 2009, insegna lingua araba e civiltà arabo-islamica in scuole pubbliche e private. Nel 2010 il suo saggio breve sull’identità e la letteratura palestinese è risultato vincitore dei seminari organizzati dall’associazione “Questioni di Frontiera”.

lunedì 23 settembre 2013

“Vicolo del mortaio” di Nagib Mahfuz


Un grande affresco corale dove i personaggi sono esempi di una varia umanità spesso sofferente come in molti altri libri dell’egiziano più noto nell’ambito letterario, unico scrittore del mondo arabo ad aver ricevuto il Nobel. A dire il vero, per quanto scarsa sia la mia conoscenza letteraria di questo paese, posso azzardare al fatto che la coralità, città e vicoli densi di odori, popolazioni, rumori, affollati di storie sono una cifra caratteristica di questi scrittori, basti pensare a “Taxi” di Khaled al-Khamissi o a “Palazzo Jacoubian” di Ala al-Aswani. C’è sempre questa folla che stordisce il lettore, questo brusio di fondo, anche se in “Vicolo del mortaio”, quartiere popolare del Cairo fotografato durante la Seconda Guerra Mondiale, lo scrittore sapientemente mescola la riflessione, lo sguardo introspettivo sui personaggi, il monologo sussurrato, al dialogo e alle scene di vita quotidiana. Non si ricorda il libro tanto per i suoi personaggi che sono tipi più che persone ma per quell’ambiente che ci è restituito e nel quale sembra di poterci entrare dentro, come nella barberia del giovane che ama la sua triste strada tanto da voler trovare il suo amore in quello spazio. Si sente l’odore del vizio dello sfruttatore che procura mutilazioni definitive dietro compenso; il profumo del caffè mescolato ad altre spezie ed effluvi che non sono proprio profumi il cui proprietario, sempre in lite feroce con la moglie e il figlio che vuole fuggire da quella miseria, non riesce a rinunciare alla propria inclinazione omosessuale e al piacere dell’hashish, passando sempre più spesso le notti fuori casa. E poi c’è Hamida che vuole andarsene dalla tristezza di quel vicolo, che si vergogna della sua biancheria lacera, che grida la sua ribellione al ragazzo che l’ama, che se ne pente, forse ma non riesce a rinunciare al sogno di ricchezza del suo sfruttatore, presunto innamorato. Sente tutta l’umiliazione di essere stata ingannata, la rabbia soprattutto verso se stessa per essersi lasciata raggirare ma nello stesso tempo, questa sua involontaria e non scelta trasgressione diventa uno strumento di emancipazione, di lotta e di ribellione radicale per chi si rassegna a finire i propri giorni nel vicolo; a non sperare di poter cercare un altrove. C’è un’umanità lacera, che la miseria rende talora meschina e più raramente solidale, a volte vittima della violenza, di chi prova ad andare oltre, a cercare di vedere in faccia la realtà e viene ucciso, probabilmente dagli inglesi. Mahfuz racconta storie di povertà che hanno attraversato il mondo e non c’è particolare originalità né approfondimento nei ritratti quanto la capacità di trascinare dentro il quartiere come unico orizzonte del popolo il lettore, facendo soprattutto sentire i rumori e le voci. Per chi conosce un po’ le grandi capitali del mondo ‘terzo’, da Casablanca a Tunisi, questo vociare, muoversi senza direzione e nello stesso tempo oziare, non sarà nuovo.


“Vicolo del mortaio”
Nagib Mahfuz
Premio Nobel per la letteratura
Universale Economica Feltrinelli
8,00 euro

Editoriaraba - Muhammad Barrada: dalla scrittura romanzesca alla teoria letteraria


Per lo #specialeMarocco oggi Rabii El Gamrani ci parla dello scrittore marocchino Muhammad Barrada e del suo libro Vite vicine, pubblicato nel 2009 in arabo, tradotto di recente in francese, ma (ancora) non tradotto in italiano. Rabii lo ha letto in arabo e in francese, ecco perchèé nel post di oggi trovate alcune traduzione inedite e il titolo citato sia in arabo che in francese.

Io, come Chiara Comito, avevo letto tra gli altri libri  di Barrada Il gioco dell’oblio, tanti anni fa. Era stata una lettura intensa e complicata che mi aveva lasciato un’immagine nitida della città di Fes, nei cui vicoli il romanzo è in parte ambientato. ho inoltre avuto il piacere di conoscere e intervistare questo autore che vive a Bruxelles qualche anno fa in Calabria in occasione di "Ottobre piovono libri".

di Rabii El Gamrani


E’ indubbio che Muhammad Barrada costituisca una delle voci più autorevoli della letteratura araba. Lo scrittore, che unisce in sé una cultura cosmopolita e bilingue, ha alle spalle una formazione di prestigio: dopo il diploma in Marocco, si laurea al Cairo e consegue un dottorato alla Sorbona, a Parigi, in letteratura. Traduttore e docente universitario, Barrada prima di essere uno scrittore è un teorico della letteratura e uno dei maggiori studiosi e traduttori del critico e semiologo francese Roland Barthes (1).

Il suo progetto include non solo la narrazione di storie, ma anche il teorizzare e l’interrogarsi sulle forme narrative adatte per raccontarle, con un approccio che si basa su nulla di preconfezionato. Così ogni romanzo diventa un’occasione per continuare lungo quella via intrapresa a metà degli anni ’80 che venne chiamata “Al Tajrib” (la sperimentazione). (2)

Ho incontrato Muhammad Barrada due volte al Salon International de l’Èdition et du Livre che si è tenuto a Casablanca a marzo scorso. La prima volta l’ho incrociato per caso mentre presentava un libro postumo dello scrittore marocchino Edmond Amran Al Maleh; ebbi l’occasione di salutarlo e di fissare un appuntamento per il giorno dopo, quando ci sarebbe stata la presentazione della sua ultima fatica letteraria:  حيوات متجاورة pubblicato dalle Èditions Le Fennec (Marocco) e Dar al-Adab (Libano) nel 2009 e tradotto in francese dalla casa editrice Actes Sud con il titolo Vies voisines (3).

Era passato molto tempo da quando l’avevo visto per la prima volta.

Anche davanti allo scrittore non riuscivo ad evocare nessuna immagine di quel primo incontro avvenuto in passato, io e la mia memoria eravamo saldamente ancorati a delle evocazioni frutto di stratificazioni successive.

Se mi dilungo nel “denunciare” la défaillance della memoria è perché parlando con Berrada ho trovato un uomo “ossessionato” della componente mnemonica della letteratura.

Quando lo incontrai a marzo, ancora non avevo letto Vies voisines e non sapevo cosa aspettarmi, ma Berrada mi introdusse alla lettura del suo ultimo libro riportandomi alla struttura dei suoi libri precedenti. A dir la verità sono stato io a trascinarlo a spiegarmi perché nella sua produzione letteraria conduce i suoi personaggi attraverso dei labirinti narrativi e spazio – temporali filtrati dalla prospettiva di diversi narratori.

Nella scrittura di Barrada infatti, il lettore non si trova solo di fronte a dei protagonisti di cui deve decodificare le storie, la psiche e le prospettive, ma anche davanti a dei tasselli seminati lungo il percorso narrativo che somigliano al gioco dell’oca: si avanza e si indietreggia e si indietreggia per avanzare. In una prassi collaudata, lo scrittore marocchino fa intervenire dei narratori esterni che si affiancano e si alternano al narratore/scrittore nello svelare aspetti inediti e talvolta contrastanti delle vicende narrate.

Questa tecnica della molteplicità dei narratori di cui Barrada è diventato lo specialista incontrastato risponde a due necessità interconnesse che costituiscono il cardine del suo progetto creativo: la Memoria e la Temporalità.

A far sbocciare la narrazione e a guidarla successivamente c’è sempre la memoria dell’autore che, avendo assistito o intercettato dei fenomeni sociali, culturali o politici che attraversano la società, si trova in un secondo momento chiamato a mettere a fuoco la sua memoria e ad interpellare quella degli altri per narrare questi fenomeni di cui la comprensione o l’analisi varia non solo da memoria a memoria, e dallo scorrere diverso del tempo per ognuno dei protagonisti, ma anche per il fatto che, accanto alle memorie individuali, c’è una “memoria collettiva” che Barrada non rinuncia a raccontare, grazie soprattutto alla molteplicità dei narratori.

Ecco come chiarisce questo concetto nel preambolo di Vies voisines:

“Dall’inizio siamo di fronte al disorientamento del narratore che tiene le fila della storia, conosce alcuni personaggi, ha visto, sentito, osservato delle scene che si sono ancorati in maniera cosciente o incosciente dentro di lui. Tutto questo è ben risaputo da chiunque abbia provato un giorno a narrare una storia: si resta indecisi sull’inizio, sul modo di estrarre i personaggi dall’alcova della memoria e dell’immaginario. Secondo me, lo scrittore che si nasconde dietro un narratore non adotta solamente uno stratagemma retorico, egli sente, profondamente che ci sono molteplici modi di dare corpo ad un testo.”

Quando lo scrittore pone fra sé e i suoi personaggi altri narratori, egli non fa altro che dare voce alla molteplicità delle memorie, ai vari gradi di comprensione e di analisi che anche una singola vicenda racchiude, e mettere sotto pressione, e a relativizzare, sia la versione dei personaggi che quella dell’autore/narratore.

La Temporalità invece si esprime attraverso una scelta cosciente di raccontare storie e fatti con un certo distacco temporaneo. L’autore si fa voce di vicende accadute in passato, ma le cui ramificazioni si estendono al presente e al futuro, cosicché i personaggi berradiani sono accompagnati quasi dalla loro nascita, fino alla loro dissoluzione corporea o narrativa, dall’ombra onnipresente dei narratori in un andirivieni continuo fra passato e presente.

Barrada lo spiega attraverso la voce del Rawi:

“Mi chino su dei fatti passati, tasche di memoria, tutto ciò era successo molto tempo fa. Ecco perché farei ricorso ad una classifica e ad una disposizione delle narrazioni. Vorrei re-immaginare, cosciente della relatività delle cose, degli eventi e dei giudizi. Secondo quale norma e in quale misura potrei interrogare il vissuto altrui? Come accedere alla neutralità richiesta dal mio ruolo? Il Tempo è un dato ambiguo, esso confonde e camuffa la realtà, non è affatto facile parlare di un passato di cui i segreti sono stati svelati alla luce di un presente che non è altro che il futuro di all’ora. Le narrazioni interrogano i fatti alla luce di un tempo già finito. Quindi la questione della temporalità è sempre lì a disorientare, ne ha ingannato molti altri prima di me. Tuttavia siamo ammaliati dai racconti del tempo passato, forse nella speranza di trovare delle briciole di quell’istante primordiale che ha sigillato il nostro legame con la vita, e non intendo l’enigma del Tempo, le sue manifestazioni o la possibilità di misurarlo. Ciò che mi preoccupa fondamentalmente è di delimitare la posizione di colui che parla, che racconta il Tempo: dove si posiziona? Dove si trova l’autore quando segue la Temporalità degli oratori e dei protagonisti nello spazio del suo romanzo? Dove si posiziona il narratore? Colui che parla del tempo convoca la morte, la finitudine, la logica degli eventi, i momenti di gioia e di delusione, le illusioni di realizzarsi attraverso il sesso e l’amore? O piuttosto si accontenta di rimettere il tempo nel suo corso abituale, nella sua scansione che guida i rapporti umani?” .

Barrada esce dal disorientamento intrinseco nel Tempo fisico e narrativo grazie allo stratagemma della molteplicità dei narratori, che gli permette di viaggiare fra il passato e il presente, di rendere la Temporalità liquida e fluttuante, e di indagare l’universo dei personaggi da varie angolature.

Così in Vies voisines le vite dei protagonisti sono distillate attraverso una tripla indagine: la prima, seguendo la maieutica socratica, è quella del narratore-narratario che incita alla confessione invitando i protagonisti a raccontargli le loro vite, le cui storie registra su un nastro. La seconda passa invece attraverso un’evocazione personale dei protagonisti senza il filtro di un narratore, i quali sono quindi soli davanti alle loro voci; e infine quella del Rawi, che si pone come un’ autorità narrativa super partes, forgiando a sua volta il proprio sguardo sui personaggi e le loro vicende.

In Vies voisines la narrazione gira attorno a tre personaggi: Naima, donna emancipata e spavalda che Berrada vuole prototipo di quella classe marocchina formatasi all’indomani dell’indipendenza, che continua a vivere sotto il fascino della cultura francese progressista e in antitesi con i valori della società marocchina, interessata ad assicurarsi un tenore di vita alto anche al costo di trovarsi imbarcata nel mondo della criminalità; Ould Hnia, uomo del popolo avveduto e affascinante che rappresenta la classe povera, dotato di intelligenza e di esperienza è tuttavia destinato a vivere ai margini, e infine Wariti, vecchio politico disilluso e voluttuoso, esempio di quella classe politica reazionaria e schizofrenica che in pubblico predica un rigore moralistico tradizionalista e conservatore, mentre nel privato pratica la dissoluzione e l’immoralità.

I tre personaggi si raccontano, si confidano, si incrociano, si seducono, si aiutano e si tradiscono e in filigrana attraverso le loro confessioni si profila l’immagine contraddittoria della società marocchina contemporanea, con le sue aspirazioni al cambiamento e i suoi blocchi strutturali, politici, culturali e sociali.

A queste tre vite si aggiunge quella del “narratore-narratario” Samih, un intellettuale progressista di sinistra che ha condiviso le “vite attigue” dei personaggi – accomunato a loro da una tardiva consapevolezza di fallimento – di cui registra il racconto ma di cui tradisce le confidenze mettendole per scritto, e filtrando questo tradimento attraverso l’intervento di un Rawi (cantautore), figura centrale della letteratura popolare araba, che mette a distanza e che presenta queste vite interconnesse.

Ne risulta una ricerca esistenziale e metafisica che s’interroga sull’origine del piacere, sul senso e le ragioni di stare al mondo, sul dramma della temporalità e della finitezza umana, sul valore dell’amore e dell’amicizia, sulla politica e la società e sulla storia di un paese dalle molteplici facce.

Muhammad Barrada, fedele a quello stile che l’ha contraddistinto, mescola la finzione alla realtà, la scrittura alla teorizzazione. In Vies voisinescome nei romanzi precedenti egli non rinuncia ad interrogarsi anche sulla capacità del romanzo, come forma espressiva, di racchiudere la complessità della realtà e teorizza, sempre grazie a questo gioco dei molteplici narratori, la necessità di affiancare al romanzo altre forme di espressione. In linea teorica lo fa poiché parte della narrazione nel romanzo vuole essere non una scrittura, ma una registrazione, non una lettura, ma un ascolto, mentre il finale, opera del Rawi, è una sceneggiatura che ha tutte le tecniche della scrittura cinematografica.

Lo scrittore marocchino mi confessò che il suo desiderio era di realizzare un libro multimediale in cui le parti che teoricamente nel testo sono riportate in un nastro fossero davvero registrate su un nastro che avrebbe potuto accompagnare il libro, mentre la sceneggiatura l’avrebbe voluta personificata con uno strumento cinematografico, progetto ambizioso al quale Berrada ha dovuto rinunciare per delle difficoltà materiali e tecniche.

Ciò al quale invece Berrada non ha rinunciato nemmeno in questo romanzo è il suo realismo linguistico, realizzato attraverso l’uso del dialetto, così quando Ould Hnia prende la parola, si racconta interamente in dialetto marocchino. Ancora una volta lo scrittore marocchino mette a dura prova i suoi traduttori da cui egli vorrebbe che tenessero in considerazione la sua scelta di coerenza linguistico-realistica di passare dall’arabo classico al dialetto marocchino, cosa che non è avvenuta nella traduzione francese del libro.

Tutti questi fattori, oltre alla complessità della lingua e del pensiero berradiano, fanno sì che la lettura di Vies voisines, come degli altri romanzi dello scrittore marocchino, sia davvero un’ esperienza stimolante e arricchente dal punto di vista umano e letterario, che molto spesso sfiora la trascendenza dell’ineffabile.

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Per chi capisce l’arabo, qui può trovare un’intervista fatta allo scrittore su France 24 in cui l’autore parla proprio del libro.

Note

(1) Mohamed Barrada ha tradotto  il famoso libro di Roland Barthes: Il grado zero della scrittura, e ha scritto molte altre opere di critica letteraria sia in francese che in arabo.

(2) Al tajrib è quel filone letterario a cui diedero vita diversi scrittori marocchini fra cui Abdellah Laroui, Mohamed Souf, Mohamed Berrada ed altri; questo filone cercò di rinnovare la scrittura del romanzo in Marocco sfruttando sia le tecniche moderne della narrazione che il patrimonio storico-orale di cui la tradizione araba è ricca.

(3) Il titolo corrisponde sia ad un’esigenza di contenuto che di forma: ad essere vicine o attigue non sono solo le vite narrate, ma anche le tre forme espressive contenuti nel libro: romanzo, registrazione su nastro e sceneggiatura

Editoriaraba - “Creatura di sabbia”, creatura di niente: la parola di Tahar Ben Jelloun


Con oggi editoriaraba inaugura una rubrica settimanale dedicata al Marocco. Recensioni, analisi, anteprime, scrittori, libri e librerie ci accompagneranno in questo breve viaggio nel mondo letterario e culturale del Marocco.

Si comincia con una recensione di “Creatura di sabbia” di Tahar Ben Jelloun a firma di Lucilla Parisi. Questo intenso romanzo è stato il primo che ho letto dell’autore marocchino e forse l’unico che mi abbia davvero colpita. È stato l’utilizzo della forza della parola da parte dell’autore che mi ha avvinta. La storia narrata non ha davvero fine perché è una storia circolare e perché la parola avvolge il lettore nelle sue spire fin dall’inizio, finché questi si ritrova spaesato e confuso dalle mille versioni narrate. È un libro che richiede molta attenzione da parte del lettore e che forse, in alcuni punti, può infastidire. Ma la lettura, credo, vale assolutamente lo sforzo.

di Lucilla Parisi

“Ho un corpo di donna; vale a dire che ho un sesso femminile, anche se non è mai stato usato. Sono una zitella che non ha neppure il diritto di avere le angosce di una zitella. Ho un comportamento da uomo, o più precisamente, mi è stato insegnato a comportarmi e a pensare come un essere naturalmente superiore alla donna. Tutto me lo permetteva: la religione, il testo coranico, la società, la tradizione, la famiglia, il paese…e io stesso”.

La storia narrata in queste pagine è quella di Mohamed Ahmed, ma non solo. È quella delle voci che raccontano della bambina, l’ultima di otto sorelle, presentata al mondo dal padre come l’agognato erede maschio. Ad Ahmed verrà insegnato a mortificare il suo corpo, a modificare la voce, a comandare su tutte le donne della famiglia e, quindi, a sostituirsi al padre nell’attività di famiglia. Ciò che nessuno le insegnerà sarà gestire le pulsioni, i desideri e i sogni di una creatura femminile destinata per natura a essere se stessa. Il dramma che si compie nel corpo e nella mente di Ahmed la porterà con gli anni ad isolarsi in quella dimora divenuta la sua gabbia dorata, ad allontanarsi dalla famiglia incapace di amarla e dal mondo che di lei conosce solo un’immagine riflessa.

Tutto ciò che le accade, nel libro viene raccontato da varie voci come una favola orientale, ma il solo a conoscere la verità sulla sua atroce esistenza è lo stesso Ahmed anziano e a documentarlo è un diario su cui lei stessa aveva riversato le proprie allucinate confessioni, maturate in un clima di solitudine profonda.

L’intreccio del romanzo risulta quindi complesso: la voce dell’io narrante si intreccia con quella del cantastorie che ammalia la piazza di astanti riunitisi ad ascoltarlo, e che coinvolge nella narrazione, in un gioco di complicità e partecipazione, diversi altri aspiranti narratori che, con la loro personale visione, condurranno la storia alla sua conclusione. A chiuderla sarà il primo narratore, il quale non potrà che prendere atto della scomparsa delle parole dal libro di Ahmed:

“Il libro è vuoto. E’ stato devastato. Ho commesso l’imprudenza di sfogliarlo in una notte di luna piena. Illuminandolo, quella luce ha cancellato le parole una dopo l’altra…La maledizione era stata gettata su di me. Né voi né io sapremo la fine della storia”.

La pluralità di narratori finisce con lo spostare l’attenzione dall’oggetto narrato al soggetto narrante: un espediente narrativo che contribuisce a donare all’intero romanzo un’atmosfera da fiaba degna de Le Mille e una notte. Oltre al recupero della tradizione orale, gli accorgimenti utilizzati dallo scrittore marocchino sono molteplici, come lo sviluppo del racconto in sette sedute vespertine, in corrispondenza di ognuna delle sette porte della città.

Come spiega il curatore del testo Egi Volterrani: “questo schema proposto è via via stravolto sempre di più. Sopraffatto dal racconto diretto delle ossessioni sessuali che turbano profondamente il protagonista e della sua dolorosa, segreta, consapevole trasformazione in donna”.

Le angosce di Ahmed nascono proprio dal fittizio ruolo sociale e familiare a cui è stato destinato all’interno di una società che il protagonista critica duramente e per il quale prova una totale repulsione. La società in cui:

“Essere donna è una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è un’illusione e una violenza che giustificano e privilegiano qualsiasi cosa”.

Lo stesso scrittore, che condivide una tale avversione per l’ingiustizia perpetrata per anni nei confronti delle donne, spiega però che: “il libro lo colloco più o meno negli anni Quaranta, quando il Marocco era ancora una colonia francese: allora nelle famiglie c’era questa ossessione del maschio, senza il quale il patrimonio andava disperso. Ma è vero che prima dell’Islam era molto peggio”. In Creatura di sabbia fa infatti dire al padre di Ahmed: “Prima dell’Islam, i padri arabi gettavano i neonati di sesso femminile in una buca e li ricoprivano di terra per farli morire. Avevano ragione: si sbarazzavano di una sventura”.

Con Creatura di sabbia, Tahar Ben Jelloun tesse una storia di innegabile ferocia in cui il mondo interiore, tutto femminile, di Ahmed è destinato a consumarsi e a morire nell’indifferenza e nella solitudine.

Il lettore non potrà fare altro che abitare quella solitudine alla ricerca delle parole che spieghino il dualismo e le contraddizioni di un corpo che vive come un uomo, ma che anela alla liberazione di sé.

“Negli ultimi tempi il mio corpo prova desideri sempre più precisi, e non so proprio come arrangiarmi per soddisfarli. […] Ho scelto l’ombra e l’invisibile. Ecco che il dubbio comincia a farsi strada come una luce cruda, viva, insopportabile. Tollererei l’ambiguità fino in fondo, ma non potrei mai esporre il viso nella sua nudità alla luce che si avvicina”.

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Creatura di sabbia, di Tahar Ben Jelloun; Einaudi 1987, 1992

A cura di Egi Volterrani.  Titolo originale L’enfant de sable

Editoriaraba - La parola al traduttore arabista. Intervista con Barbara Benini

Settembre, tempo di nuovi inizi. E con oggi Editoriaraba inaugura un’altra rubrica, questa volta mensile: ovvero, una serie di interviste con i traduttori italiani dall’arabo. È un modo per ringraziarli del (durissimo) lavoro che svolgono, che spero serva anche da incoraggiamento a tutti coloro i quali, giovani e non, si accingono a lavorare in questo campo.


Intervista con Barbara Benini

Editoriaraba: Qual è stato il tuo percorso di studi e come hai cominciato a tradurre?

Barbara Benini: Mi sono diplomata al Liceo Classico tradizionale di Ferrara e subito dopo mi sono iscritta alla Facoltà di Lingue e Letterature Orientali di Venezia. Sin dalle elementari, dove avevo iniziato a studiare l’inglese, i miei insegnanti avevano notato quanto fossi portata per le lingue straniere e infatti mi avevano consigliata di iscrivermi al Liceo Linguistico. Tuttavia, dato che a Ferrara l’unico Liceo Linguistico era privato, dopo ben sei anni tra le suore, decisi di optare per il classico tradizionale, pubblico, e non me ne sono mai pentita, anche perché era l’unica scuola superiore con il minor numero di ore di matematica e fisica, che io ho sempre odiato. Tra l’altro ho iniziato ad amare la letteratura proprio lì, grazie alla mia professoressa di latino e greco, che aveva un approccio piuttosto olistico nell’insegnamento dei classici. Terminato il liceo, la mia famiglia avrebbe voluto che mi iscrivessi alla facoltà di giurisprudenza, ma dopo un’estate trascorsa ad aiutare mio zio nel suo studio legale, ho capito che non faceva proprio per me, così ho proseguito verso la letteratura e le lingue straniere, scegliendo l’arabo come prima lingua e l’inglese come seconda

Ea: Come e perché è nato il tuo interesse per il mondo arabo e la letteratura araba?

BB: il mio interesse per il mondo arabo è nato per forza di cose sin da quando ero bambina. Mio nonno era nato in Tunisia, di lì si era trasferito in Libia con la famiglia e durante il fascismo fu tra i primi iscritti dell’Orientale di Napoli, alla facoltà di Scienze Coloniali. La domenica a pranzo da mia nonna, si mangiava cous cous e mio nonno mi faceva sempre vedere le sue foto della Libia e della Tunisia, oltre che raccontarmi i suoi ricordi. Pure mia nonna, che era figlia di un Carabiniere di stanza a Tripoli, contribuiva alle storie narrandomi come era la loro vita laggiù. Certamente il loro approccio positivista e la loro educazione li portavano a pensare di essere andati a portare la cultura, però non è che la cosa mi abbia mai toccata più di tanto, a me interessava sapere cosa si faceva all’epoca, come si viveva, come interagivano con i locali. Come ho detto prima, ho amato la letteratura sin dal Liceo, quindi era gioco forza che mi appassionassi anche alla letteratura araba.

Ea: Hai tradotto Rogers e la Via del drago divorato dal sole di Ahmed Nagi (Il Sirente, 2010) e Al di là della città di Gamal al-Ghitani (ed. Lavoro, 1999): due autori egiziani contemporanei eppure dallo stile differente. Quale ti è piaciuto di più tradurre, se hai un preferito, e quale sono state le differenze nel lavoro di traduzione?

BB: Mi sono piaciuti entrambi perché sono due romanzi molto strani, unici direi. Ghitani ha uno stile molto complesso, utilizza termini presi a prestito dal sufismo e dalla letteratura classica piuttosto difficili e talora obsoleti, ma mi piace molto. Inoltre Al di là della città è nato a Bologna, per cui mi è stato facile riconoscere i lineamenti della città di cui si parla nel testo, anche se Ghitani è stato molto abile nel nasconderli tra miti e leggende che nulla hanno a che vedere con il capoluogo emiliano. Anche Rogers non è stato semplice da tradurre: lì la difficoltà non era di tipo lessicale, quanto piuttosto testuale. Ahmed ha uno stile molto variegato, contemporaneo, e quindi la difficoltà stava proprio nel capire dove andasse a parare. Ho letto Rogers qualcosa come sei o sette volte per capire bene la storia e per rendermi conto che alla fine era tutto un trip mentale ben costruito. 

Ea: Cosa si prova nel vedere pubblicata per la prima volta una propria traduzione?

BB: Orgoglio e soddisfazione. Non sono madre, ma forse è come un parto.

Ea: Cosa consiglieresti ad un giovane traduttore che oggi voglia cimentarsi nella traduzione letteraria dall’arabo?

BB: Di leggere a più non posso nella sua lingua, perché se non si è bravi a scrivere in italiano e non si conosce bene la propria lingua, meglio lasciar perdere.

Ea: Quali sono, secondo la tua esperienza, le maggiori difficoltà dal punto di vista linguistico nel tradurre gli autori arabi (se ci sono)?

BB: Secondo me i dialoghi in arabo colloquiale: non credo che tutti i traduttori conoscano tutti i dialetti arabi e il problema sta lì. Per il resto, con l’arabo standard non ci sono grossi problemi.

Ea: Come valuti il mercato editoriale italiano rispetto alle traduzioni dall’arabo? Secondo te si potrebbe fare di più e se sì, come?

BB: Purtroppo il mercato editoriale italiano per forza di cose, per ciò che concerne i grossi editori, è regolato da scelte di mercato: cioè si pubblica quel che si reputa possa vendere di più, ma vado oltre. La politica italiana verso i paesi arabi e soprattutto l’immagine che il nostro governo ha voluto dare del mondo arabo agli italiani, per via di certe alleanze strategiche a livello economico e geopolitico, influenzano anche il mercato dell’editoria. Quando un editore sceglie di pubblicare solo un certo tipo di romanzi e si giustifica dicendo “Ma i lettori vogliono questo” in parte è vero. Se costantemente si propina un certo genere di stereotipo è chiaro che il lettore medio quello si aspetta, anzi ne vuole ancora e ancora. Altro discorso sono i piccoli editori, che si sforzano un sacco con la promozione, ma che alla fine non riescono più di tanto a scalfire l’immagine imperante sul mondo arabo. Ovvio che si potrebbe fare di più, ma è sempre una questione di vil denaro: chi più ha spende male, e chi meno ha fa quel che può. Io credo molto in quello che facevano in passato, quando le arti, le Muse, erano veramente sorelle, non come ora dove ognuna si fa i fatti suoi. Musica, letteratura, recitazione ecc ecc se affiancate l’una all’altra avrebbero tutte quante da guadagnarci. Ma sono una sognatrice.

Ea: L’ultimo libro in arabo che hai letto?

BB: The diesel dell’autore emiratino Thani Al Suwaidi.

Ea: Uno scrittore arabo che secondo te dovremmo tenere sott’occhio?

BB: Youssef Rakha.

Ea: L’ultimo libro di uno scrittore arabo tradotto in italiano che hai letto?

BB: Rapsodia Irachena (di Sinan Antoon, Feltrinelli, 2010; trad. dall’arabo di R. Ciucani – NdR)

Ea: Progetti in vista di cui ci vuoi/puoi parlare?

BB: No

Editoriaraba - Elias Khoury e Farouk Mardam Bey (e tanti altri) al Festival di Internazionale a Ferrara

Ottobre, ovvero, il momento di Internazionale e del suo Festival. Per tre giorni, dal 4 al 6 ottobre, la redazione della rivista di politica e cultura internazionale più famosa d’Italia trasformerà la splendida città estense nella “redazione più bella del mondo”.

Non mancheranno gli appuntamenti con i libri e la cultura sul mondo arabo.

Si comincia sabato 5 ottobre alle 11 (presso il mercato coperto) con la presentazione dei due libri sulla Siria del momento: Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre (Mondadori, 2013), di Lorenzo Trombetta, giornalista dell’ANSA basato a Beirut e La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana (Add Editore, 2013), di Shady Hamadi, giornalista e attivista italo-siriano.

Introduce e modera Francesca Sibani, della redazione Africa e Medio Oriente di "Internazionale". 

Alle 12.30, sempre al mercato coperto, sarà il momento gastronomico-cultural-letterario di Farouk Mardam Bey. Storico ed editore franco-siriano, direttore della collana Sindbad della casa editrice Actes Sud, dedicata alla letteratura araba classica e contemporanea, di gastronomia araba a cui ha dedicato due libri, tradotti anche in italiano: Il trattato dei ceci (trad. di C. Pastura, Mesogea, 2011), insieme a Robert Bistolfi e La cucina di Ziryab. 83 ricette per un’iniziazione pratica alla gastronomia araba (trad. di Samuela Pagani, Edizioni Lavoro, 2000).

L’incontro, dal titolo “Uno straordinario popolo di viaggiatori. Dal Mediterraneo all’India l’avventura dei ceci tra storia e gastronomia” sarà guidato da Elisabetta Bartuli, arabista e traduttrice della Cà Foscari di Venezia. A seguiredegustazione di ricette italiane, mediorientali e asiatiche (ingresso su tagliando!).

Alle 14.30 in Piazza Municipio sarà il turno dello scrittore libanese Elias Khoury che, insieme al giornalista Gad Lerner, dialogherà sul tema del ruolo degli intellettuali in Medio Oriente.

L’acclamato autore di romanzi come Yalo, Facce bianche e La porta del sole (tutti pubblicati da Einaudi) sarà anche protagonista, il giorno dopo, di un altrettanto imperdibile incontro, in cui parlerà di letteratura insieme a Elisabetta Bartuli. Appuntamento quindi domenica 6 alle 14 al Chiostro di San Paolo.

Lo scrittore algerino Amara Lakhous chiude questa mini rassegna letteraria arabista con la presentazione del suo ultimo libro: Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario (e/o, 2013). L’incontro, moderato dal giornalista Stefano Solis, si terrà sabato alle 17.30 a Palazzo Roverella.

Questi sono solo alcuni degli innumerevoli incontri organizzati a Ferrara.

venerdì 13 settembre 2013

Editoriaraba - La scrittrice palestinese Adania Shibli ospite al MAXXI di Roma


Venerdì 13 settembre alle 18.00 il Museo MAXXI B.A.S.E. di Roma ospiterà un incontro con la scrittrice palestinese Adania Shibli dal titolo Tracciando l’invisibile. Dialogo con la scrittrice palestinese Adania Shibli, che sarà presentato da Costanza Ferrini, esperta di letterature del Mediterraneo e da Mariangela Mincione, titolare della libreria Nero su Bianco

L’incontro, che sarà introdotto dalla Presidente della Fondazione MAXXI Giovanna Melandri, è stato organizzato in occasione dello svolgimento dellamostra The sea is my land, curata da Francesco Bonami e Emanuela Mazzonis per i 100 anni di BNL (allestita fino al 29 settembre nello Spazio D del MAXXI). Si tratta di “140 opere di 22 artisti provenienti dai paesi del Mediterraneo che raccontano l’evolvere dell’incessante e travagliata metamorfosi del Mare Nostrum”, al cui interno compare anche un racconto dell’autrice palestinese.
L’evento è a ingresso libero fino a esaurimento posti ed è stato organizzato dall’Associazione “All’ombra del Mediterraneo”.

Adania Shibli è nata nel 1974 in un villaggio dell’Alta Galilea e oggi vive tra l’Europa e Ramallah. Ha all’attivo due romanzi: مساس (una parola non traducibile con un termine adeguato in italiano: ha a che fare con il campo semantico delle espressioni “sentire col tatto, palpare, toccare, tastare”), originariamente pubblicato da Dar al-Adab (Beirut) nel 2002, è stato tradotto in molte lingue tra cui l’italiano. Nel 2007 è infatti uscita la traduzione italiana a cura di Monica Ruocco con il titolo Sensi (Argo ed., 2007; pp. 94, € 11). Nel 2004, sempre per la casa editrice libanese, ha pubblicato كلنا بعيد بذات المقدار عن الحب, tradotto in inglese nel 2012 con il titolo We Are All Equally Far From Love (che traduce letteralmente il titolo originale). Il suo ultimo lavoro, Dispositions, è un libro d’arte incentrato su un gruppo di 17 artisti palestinesi contemporanei.
Adania Shibli ha anche scritto numerosi racconti che sono apparsi su riviste in Libano e in Palestina. Inoltre: ha vinto due volte il Premio della Fondazione A.M.Qattan; ha fatto parte dei 39 autori arabi sotto i 39 anni scelti per partecipare al progetto Beirut 39 organizzato dallo Hay Festival nel 2010, ma a causa del suo passaporto israeliano non è potuta andare in Libano a prendere parte alla manifestazione. Nel 2011 è stata ospite del Festival Babel, dedicato quell’anno alla Palestina, insieme alla sua traduttrice italiana.

“Adania Shibli è anche impegnata in ricerche e insegnamento in ambito accademico. Nel 2009 ha sostenuto il Phd in Media e studi culturali all’University of East London. E’ stata lettrice all’ University of Nottingham, UK (2005-2009) e, dal 2012, alla Bir Zeit University, in Palestina. Nell’agosto – settembre 2013 è residente come scrittrice presso la Civitella Ranieri Foundation.

100mila poeti per il cambiamento: oltre 500 eventi nel mondo


In Italia una raccolta no profit di poesie su pace, diritti umani, ambiente, etica e lavoro. Destinatari la politica e le Istituzioni.

Albeggi Edizioni ha aderito alla manifestazione 100 Thousand Poets for Change, che si svolgerà il 28 settembre in tutto il mondo, con un'antologia di poesie sui temi della pace, dei diritti umani, della sostenibilità ambientale, dell'etica nell'economia e del lavoro, prodotta senza scopo di lucro, che verrà consegnata a rappresentanti istituzionali e resa disponibile gratuitamente sul web. L'obiettivo dell'iniziativa è ridare dignità alla poesia come mezzo di espressione della denuncia civile e sociale, esortando le Istituzioni a mettere al centro dell'agire di governo e politico l'Uomo, i suoi bisogni, il suo futuro.
29 le poesie inedite di: Lucianna Argentino, Claudio Arzani, Fabio Barcellandi, Carlo Bordini, Marisa Cecchetti, Marco Cinque, Massimiliano Damaggio, Andrea Garbin, Giuseppe Iannarelli, Giovanna Iorio, Roberta Lipparini, Gianmario Lucini, Gabriella Modica, Paola Musa, Benny Nonasky, Guido Oldani, Paolo Polvani, Valeria Raimondi, Riccardo Raimondo, Ottavio Rossani,Francesco Sassetto, Adriana Scanferla, Jamshid Shahpouri, Christian Sinicco, Angelo Tonelli, Caterina Trombetti, Claudia Zironi e dei due fondatori dell’iniziativa mondiale Terri Carrion e Michael Rothenberg.

Scrive nella sua prefazione il poeta e critico Ottavio Rossani: "Le condizioni sociopolitiche del nostro Paese richiamano i poeti ad esercitare il rigore logico ed il coraggio passionale per denunciare la vergogna delle incompiutezze, delle stragi, della corruzione, delle cadute etiche, della perdita dei valori, delle lacune professionali in tutti gli ambiti produttivi, e di una burocrazia ancora cieca e sorda davanti ai cittadini". 
Le poesie di questa raccolta toccano infatti argomenti di forte impatto sociale, politico e di cronaca. C’è la guerra, con le sue atrocità, e la sua vicinanza; c’è il bisogno di etica nella politica e nella società; c’è l’ambiente e le sue sofferenze; ci sono sguardi preoccupati sulle nuove povertà, sulla vergogna delle carceri, sulle tendenze razziste e xenofobe in Europa. Ci sono sguardi pietosi su fatti di cronaca, come i suicidi dei ragazzi derisi per la loro diversità, la violenza che si consuma tra le pareti domestiche, i fatti di Genova, il fioraio suicida ad Ercolano al quale sono state dedicate due poesie. Ci sono versi di profonda indignazione verso chi profana le Istituzioni e versi di profondo amore per lʼItalia, per la sua bellezza.

Iniziata nel 2011 con una call to action su facebook, 100 Thousand Poets for Change sta oggi davvero scuotendo le coscienze del mondo, chiamando a raccolta artisti di varie discipline da ogni angolo del pianeta, con la Stanford University curatrice di un enorme archivio permanente globale. La gente è ovunque alla ricerca di un cambiamento positivo - scrivono Michael Rothenberg e Terri Carrion nella presentazione. Sabato 28 settembre il museo dei bambini Explora di Roma accoglierà l'iniziativa mondiale ospitando alle 16 un workshop poetico in cui un gruppo di autori dell'antologia incontrerà i bambini per avvicinarli alla poesia. Chi, meglio dei bimbi, come futuri attori del cambiamento.

mercoledì 11 settembre 2013

Editoriaraba - Ahmed Mourad al Festival della Letteratura di Mantova


Il giovane scrittore Ahmed Mourad è stato l’ospite gradito dell’ultima giornata del Festivaletteratura di Mantova, come ci racconta Cristina Dozio che era tra il pubblico del Teatro Bibiena. Mourad è una delle voci più originali della letteratura araba contemporanea. Scrive in arabo e dall’arabo è stato tradotto da Barbara Teresi per la casa editrice Marsilio nella collana Farfalle, che pubblica i gialli della letteratura italiana e internazionale. Dunque abbiamo uno scrittore arabo (egiziano) che “sfonda” la barriera della letteratura-araba-solo-per-specialisti/arabisti ed entra di filato nelle librerie del lettore qualunque. Vertigo e Polvere di diamante, d’altra parte, nulla hanno da invidiare ai gialli di altri scrittori. Sono avvincenti, intriganti e ti tengono incollato fino all’ultima pagina con un misto ben congegnato di ironia, sesso, intrigo e un pizzico di macabro (soprattutto nel secondo). A questo punto mi aspetto anche la traduzione dell’ultimo libro, L’elefante blu

di Cristina Dozio

Domenica scorsa, nella giornata conclusiva della diciassettesima edizione del Festival della Letteratura di Mantova, l’arabista Elisabetta Bartuli ha presentato il giovane scrittore egiziano Ahmed Mourad. Classe 1978, tre romanzi all’attivo, di cui i primi due, Vertigo (Marsilio, 2012) e Polvere di diamante (Marsilio, 2013), tradotti in italiano da Barbara Teresi, sono stati campioni di vendite nel mondo arabo e hanno saputo attrarre un nutrito pubblico anche nella città dei Gonzaga.

Tono di voce pacato e piglio simpatico, Mourad non si direbbe affatto il classico e navigato autore di thriller. E invece lo è, anzi è lui ad aver “inaugurato” questo genere in lingua araba. Non che manchino scritti di inchiesta, ma i gialli e i polizieschi puri, in cui un investigatore va a caccia del colpevole, non abbondano. L’autore di Vertigo ha tentato un’altra strada, quella del thriller appunto, che gli sembrava più vicina all’esperienza quotidiana dei suoi concittadini: leggendo sui giornali o vivendo sulla loro pelle casi di malaffare, gli egiziani hanno sviluppato un’intelligenza pratica e un intuito quasi da detective.
Per questo nelle sue opere sono le persone normali, e non i poliziotti, a dipanare il bandolo dell’intricata matassa. A proposito della polizia, Mourad ha affermato che una delle scintille scatenanti la “prima rivoluzione” sono state proprio le ingiustizie perpetrate dalle forze dell’ordine le quali, durante l’anno di governo dei Fratelli Musulmani, sono ricadute nello stesso errore di dare man forte a un potere pervasivo. A suo avviso ora si starebbe invece creando un’unione tra i cittadini, l’esercito e anche la polizia. 
Tra Vertigo e Polvere di diamante si avverte una maggior maturità e anche una denuncia più aperta. Ahmad, il protagonista di Vertigo, somiglia molto al suo omonimo Mourad che, alla prima prova da scrittore, ha preferito scrivere di una realtà a lui vicina. Lo ha definito “un puro che si ribella”, mentre Taha, il protagonista di Polvere di diamante, ha una “reazione più brutale”. Una tale evoluzione su carta, che si registra anche tra i personaggi femminili (Ghada e Sara), è parallela al cambiamento avvenuto nella realtà tra la gente. Il secondo romanzo è uscito al Cairo solo un anno prima delle proteste del 2011 e in esso – dice l’autore – si avverte già l’inquietudine, il ribollire della società.

Scrittore, fotografo, sceneggiatore e grafico: questa poliedricità, che condivide con diversi artisti della sua generazione, è legata al fermento culturale che ha investito l’Egitto almeno da una decina di anni, vuoi per gli spazi lasciati liberi dal regime di Moubarak, vuoi per gli spazi conquistati in rete. Mourad si è detto entusiasta di scrivere in un’epoca di fermento, in cui la richiesta di testimoniare la storia arriva dai suoi stessi lettori. “L’Egitto sta rinascendo dalla parola” ha affermato, riconoscendo il contributo degli intellettuali al cambiamento del Paese, e spingendosi a dire che si cimenterebbe in ogni forma artistica – anche suonare, se ne fosse capace – per dare il suo contributo.

Ma gli scrittori e i libri hanno un reale impatto sulla società? E qui si è aperta una simpatica parentesi geografica: a Dubai ci sono infinite possibilità per pubblicare e fare promozione, ma non ci sono scrittori – ha detto con un sorriso; in Inghilterra invece si legge moltissimo, è l’impressione che ha avuto dalle presentazioni della versione inglese di Vertigo; e in Italia probabilmente si legge troppo poco come in Egitto, ma vedendo molti giovani volontari al festival l’autore si è detto molto ottimista per entrambi i Paesi

Nonostante la situazione politica in Egitto sia di assoluta attualità, non gli sono state poste troppe domande su questo tema ed è stato priviegiato l’aspetto letterario dell’incontro, lasciando così che fossero le sue opere letterarie a farci capire meglio la realtà. Ma il pubblico era sicuramente curioso di sapere come Mourad fosse diventato il fotografo ufficiale del presidente Mubarak e se avesse vissuto un conflitto tra la sua professione e quanto accadeva fuori da quella gabbia dorata. Il giovane autore ha risposto rivendicando l’etica professionale del fotografo che, solo essendo distaccato, può fermare con un’istantanea attimi che poi diventano fondamentali nella storia collettiva. Ha raccontato di aver persino regalato delle copie dei suoi romanzi al ra’is, che si direbbe non abbia saputo cogliere il loro spirito di denuncia!

L’incontro si è svolto nella bella cornice del Teatro Bibiena dove – come è stato ricordato all’inizio dell’incontro – pochi anni fa Mahmoud Darwish e l’attore Franco Lombardi recitarono Murale in arabo e italiano. Lo spettacolo è stato successivamente riproposto in altre città, tra cui Siena, dove è stato registrato un video che si può vedere dal blog Editoriaraba

lunedì 9 settembre 2013

Rivolte in atto - Dai movimenti artistici arabi ad una pedagogia rivoluzionaria di Paola Gandolfi

Lunedì, 02 Settembre 2013 Ilaria Guidantoni Ho incontrato l’autrice di questo libro sui movimenti culturali ed artistici legati alle rivolte arabe al Festival Onde mediterranee a Monfalcone quest’estate, ma solo virtualmente, perché ci siamo perse per un giorno, in questo girovagare, come in un viaggio nel viaggio rappresentato dal mondo dei festival. Pochi giorni fa ho ricevuto in omaggio il suo testo “Rivolte in atto”, documento puntuale, critico e articolato che consente senza pretese di esaustività un ampio sguardo su questi ultimi anni tunisini, con alcuni riferimenti al mondo delle rivolte arabe ed in particolare all’Egitto. Rivolte in atto Dai movimenti artistici arabi ad una pedagogia rivoluzionaria di Paola Gandolfi Mimesis Eterocopie 16.00 euro Il testo è altresì di facile e piacevole lettura anche per i non addetti ai lavori e conferma la vocazione didattica dell’autrice, mai troppo didascalica, arabista e ricercatrice in Pedagogia Generale e Sociale presso l’Università di Bergamo al Dipartimento Scienze Umane e Sociali, dove insegna Politiche educative dei paesi arabo-islamici del Mediterraneo. Da segnalare innanzi tutto il punto di vista originale di uno sguardo attento al risveglio artistico che ha interessato la Tunisia dopo la fine del regime di Ben Ali, ai fini della comunicazione e soprattutto del nuovo linguaggio che la cultura artistica giovanile disegna nello scenario del mondo dell’istruzione e dell’insegnamento. E’ un tema di grande rilievo perché la Tunisia, dopo aver dedicato grande impegno all’istruzione e alla coltivazione della libertà d’espressione e di uno sguardo ampio rivolto alla scena internazionale, nei 23 anni di dittatura del Rinoceronte, è precipitata in una stasi culturale e informativa impressionante anche se, come fa notare l’autrice, il fuoco è stato mantenuto vivo sotto la cenere, per incendiare dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento, gli unici spazi possibili di condivisione, la virtualità e poi scendere in piazza, nei luoghi reali di incontro. Paola Gandolfi sottolinea infatti come la cultura per essere tale dev’essere diffusa e condivisa e per questo percorso necessita di una strada sulla quale camminare, quella appunto dei luoghi di incontro che il regime ha sempre boicottato. Per me è stato sorprendente trovare tanta sintonia nell’interpretazione, nei riferimenti culturali classici della cultura mediterranea e rivivere molte pagine dei miei libri e prima ancora dei miei viaggi ritrovandovi tanti amici come il regista Mourad Ben Cheikh, personaggi di due miei libri sulla Tunisia e Mohammed Belkadhi, artista di cui un’opera è la copertina di un mio romanzo. L'articolo integrale su Saltinaria.it

Editoriaraba - Da Little Syria all’Arab American Book Award: la lunga storia, letteraria e non, degli arabi d’America


Secondo l’Arab American Institute, negli USA vivrebbero più di 3,5 milioni di persone di origine araba, i cui antenati emigrarono negli Stati Uniti e in Sud America a partire dal 1870-80. In particolare fu il Mashreq che rappresentò il principale bacino di provenienza degli immigrati di allora: il 62% degli arabi statunitensi di oggi avrebbe infatti origini libanesi, siriane, palestinesi e giordane. Erano per lo più cristiani, emigrati per motivi politici ed economici.

"Di questa storia, ci racconta Chiara Comito, avevo parlato qualche tempo fa, quando avevo recensito Come fili di seta, dello scrittore libanese Rabee Jaber, che nel libro racconta le storie dei tanti emigrati dalla regione siro-libanese nelle Americhe proprio nel XIX secolo. Jaber, con la sua prosa trascinante, ci aveva condotti per mano a cavallo degli Stati Uniti, seguendo le vite e le tragedie di questi lavoratori instancabili, profondamente attaccati alla propria terra d’origine, che avevano avuto un ruolo fondamentale nel costruire la storia degli Stati Uniti. E quando parliamo dei “primi” arabi d’America non possiamo non citare gli scrittori e i poeti che diedero vita a quel fiorente movimento culturale e letterario passato alla storia come la letteratura d’emigrazione, che ha il suo esponente più famoso nello scrittore ed intellettuale libanese Jibran Khalil Jibran."

Sempre secondo lo AAI, gli arabo-americani vivrebbero oggi sparpagliati in tutti gli Stati ma con una preferenza per le aree metropolitane come New York, Detroit, la California e il Michigan.

Gli arabi che si trasferirono a New York si concentrarono nella zona di lower Manhattan (quella del World Trade Center), che si riempì di negozi, ristoranti e caffè con la doppia insegna arabo-inglese e che passò alla storia con il nome di “Little Syria”.

Così la descrive Azzurra Meringolo in un suo recente audio-reportage per Radio3 Mondo:

Little Syria è la più grande comunità arabo-americana che si sia formata nella città di New York tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900. Il quartiere si nasconde nella punta sud occidentale di Manhattan, i primi immigrati arabi infatti si insediarono in quel reticolato di strade di Washington Street, lo stesso quartiere che poi sarebbe diventato anche la base di Wall Street.

Little Syria è stata per anni il punto di riferimento delle più grandi ondate migratorie provenienti dal Medio Oriente. Comunità vivace, multietnica e internazionale il quartiere però ha subito le conseguenze della riorganizzazione della città: la realizzazione del tunnel che collega Brooklyn a Long Island nella metà degli anni ’50 ha costretto la comunità all’esodo e, mentre Atlantic Avenue è diventato il nuovo centro della comunità araba, compaiono numerose campagne per la preservazione di quel che rimane della storica Little Syria, vivace scenario artistico e giornalistico del Medio Oriente oltre oceano.

Tornando nel Michigan, leggo che a Dearborn vivrebbe la più alta percentuale di arabo-americani, e di certo non è un caso se l’Arab American National Museum si trova proprio in questa cittadina. L’AANM, come si può leggere sul sito, è stato aperto nel 2005 ed è l’unico museo statunitense dedicato alla storia e alla cultura degli arabo-americani; l’obiettivo è quello di: “promuovere, preservare e celebrare la storia, la vita e i contributi degli arabo-americani”.

Tra i tanti eventi culturali organizzati, vale la pena menzionare senza dubbio lo Arab American Book Award, creato nel 2006 per “sostenere e incoraggiare la pubblicazione di libri che migliorino la comprensione e la conoscenza della comunità arabo-americana”. La giuria, composta da autori, artisti, docenti universitari e staff del Museo ogni anno assegna quattro premi nelle seguenti aree: Adult Fiction (narrativa per adulti), Adult Non-Fiction (saggistica per adulti), Children’s/ Young Adult (letteratura per l’infanzia/ragazzi) e dal 2008, Poetry (poesia).

Quest’anno i vincitori del premio sono stati: lo scrittore di origini libanesi Joseph Geha, con il suo romanzo Lebanese Blonde: la storia di due cugini libanesi emigrati a Toledo, nell’Ohio, che avviano un fiorente commercio per importare dal Libano un potente tipo di hashish, la Lebanese Blonde del titolo. 

Per la sezione saggistica, la vittoria – postuma – è andata al compianto giornalista Anthony Shadidper il suo commovente memoir House of Stone, tradotto in italiano da Add Editore lo scorso anno con il titolo La casa di pietra.

La poetessa di origini palestinesi Hala Alyan ha invece vinto con la sua raccolta di debutto Atrium.

Nella sezione letteratura per l’infanzia fanno bella figura Susan L. Roth e Karen Leggett Abourayacon il loro libro illustrato Hands Around the Library: Protecting Egypt’s Treasured Books, che racconta una storia vera: quella dei tanti manifestanti egiziani, tra cui studenti e librai, che nel gennaio del 2011 formarono una catena umana davanti la Biblioteca di Alessandria per proteggerla dai vandali.

La cerimonia di premiazione avverrà il 2 novembre presso lo stesso Museo.

Il Museo ha anche organizzato una mostra per celebrare la presenza araba a New York e il profondo legame che quella comunità ebbe fin dall’inizio con la città. La mostra si intitola: Little Syria, NY: an Immigrant Community’s Life and Legacy.