domenica 28 febbraio 2016

“In movimento” di Oliver Sacks

Scritto da   Domenica, 28 Febbraio 2016
    “In movimento” di Oliver Sacks
Un’autobiografia insolita, dentro la mente di uno scienziato che diventa in qualche modo scrittore della propria scienza, letterato della mente, intesa come organo, un’anatomia dei comportamenti umani dove fisiologia e neurologia si mescolano al sociale e alle dimensioni emotive. Eppure anche un affresco della società inglese ed americana di fronte al “disturbo mentale”, alle inclinazioni considerate “diverse”, un’indagine per certi aspetti spietata, in certi altri lirica e irruente come On the road.
In movimento, l’autobiografia di Oliver Sacks, esce il 15 ottobre del 2016, a poco più di un mese dalla scomparsa dell’autore pubblicato da Adelphi nella traduzione di I.C. Blum. Il 19 febbraio 2015 Oliver Sacks, probabilmente il neurologo in vita più conosciuto nel mondo occidentale, esce allo scoperto sulla sua malattia: gli resta poco da vivere, a causa di un raro tumore all’occhioche nove anni prima è stato rimosso ma che la sorte ha voluto rientrasse nel 50% dei casi in cui il cancro persiste fino alla metastasi; ma, dice Sacks, ha ancora tanti libri in cantina pronti per essere pubblicati. Nel caso questo avvenga, i libri verranno pubblicati postumi. E così è stato, dato che il 30 agosto 2015 Oliver Sacks è morto all’età di 82 anni, sconfitto dalla malattia.


Per la lettura completa dell'articolo: http://www.saltinaria.it/recensioni-libri/libri/in-movimento-di-oliver-sacks-recensione-libro.html

sabato 20 febbraio 2016

Il mio Viaggio di ritorno. Firenze si racconta arriva a Roma a marzo

lunedì 15 febbraio 2016

Firenze alla Fondazione 3M Italia, Pioltello - Milano

lunedì 8 febbraio 2016

“PPP Pasolini, un segreto italiano” di Carlo Lucarelli

Scritto da   Sabato, 16 Gennaio 2016 
“PPP Pasolini, un segreto italiano” di Carlo Lucarelli
Un testo sul percorso giornalistico dell’autore, su Pasolini giornalista e sul giornalismo investigativo in Italia, ricco di spunti e di angolature per nulla scontate.
Il sottotitolo racconta in sintesi lo spirito del libro e anche dell’attività di Carlo Lucarelli che a Pasolini è legato per averlo incontrato, mai di persona, attraverso gli articoli di giornale. E’ il Pasolini giornalista, l’uomo dell’impegno civile e della denuncia a tutto campo della società quello a cui è legato l’autore, non tanto al poeta che avrebbe scoperto successivamente. La morte di Pasolini, come quella di Enrico Mattei, presidente dell’Eni e di tanti altri, non è per Lucarelli un mistero, un evento senza soluzione ma un segreto, qualcosa di cui non si è voluto sapere la verità, o meglio si è comunicato una falsa verità o, ancora più precisamente, si è voluta nascondere la verità.
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“Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz, Adelphi Edizioni

Scritto da   Domenica, 07 Febbraio 2016 

“Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz, Adelphi Edizioni
Una storia nella storia, una sorta di teatro nel teatro, la storia narrata e di chi scrive. Un caso controverso che porta alla luce la rivolta degli ebrei nel ghetto di Varsavia, un caso unico. Non solo, c’è in questo esile racconto, un processo a Dio che è in qualche modo tipico del popolo eletto; un rovesciamento dello spirito cristiano del popolo che ama la legge, la Torah, più che Dio stesso, della ferita esistenziale e del Dio che nasconde il proprio volto e lascia che il giusto non riceva pietà.
E’ un testo esile, rivolto a Dio e rivolta contro Dio senza però una condanna definitiva. Come non ricordare il Processo a Dio con Ottavia Piccolo di qualche anno fa al Teatro Valle di Roma e come non pensare che è tipico del popolo eletto questo genere di processo? Non c’è ad esempio nulla di simile nel popolo armeno che pure è stato sterminato. Al di là dei numeri, calcoli macabri, lo sterminio di massa, senza una ragione almeno plausibile è un abominio della storia che si ripete, eppure gli ebrei considerano il proprio stato singolare, per non dire unico. Attenzione non c’è la maledizione di Dio, ma un processo.

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“Un amore” di Dino Buzzati - Oscar Mondadori

Scritto da   Mercoledì, 03 Febbraio 2016 
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“Un amore” di Dino Buzzati - Oscar Mondadori
Un classico poco conosciuto di un autore noto ma poco letto soprattutto oggi. Un romanzo in prima persona, una storia d’amore a senso unico nella Milano di grovigli e intrighi, solitudini ed evasioni, vecchi e nuovi. E’ una storia narrata in prima persona di eccezionale attualità e certamente scabrosa per l’epoca non tanto per la vicenda quanto per la narrazione cruda. Un amore perduto da perdizione che solo una nuova vita può salvare.
Dino Buzzati è uno dei nomi e degli intellettuali che raccontano l’Italia del Novecento eppure, al di là della qualità e dell’impegno molteplice nella sua vita, oggi è decisamente poco letto, fatta eccezione per Il deserto dei Tartari, forse reso celebre anche dal film omonimo. Eppure Buzzati è un intellettuale completo che ha avuto successo e che nel Maghreb è “stranamente” conosciuto, letto e apprezzato tutt’oggi. La mia curiosità - da frequentatrice di quelle zone - non poteva quindi esimersi dall’andare a ripescare la sua produzione e a ricordare chi fosse questo bellunese (nasce nel 1906), di famiglia alto borghese – il padre professore di diritto internazionale all’Università di Pavia e alla Bocconi di Milano e la mamma discendente da una famiglia nobile - trasferito giovane a Milano e naturalizzato milanese dove morì nel 1972. Da sempre redattore del Corriere della Sera, fu assunto ancor prima di terminare gli studi in legge nel 1928, per un periodo corrispondente di guerra a bordo delle navi nel Mediterraneo; fu altresì scenografo e pittore e lavorò per La Scala, come Antonio Dorigo, architetto e protagonista di Un amore. Non è questa l’unica analogia del suo personaggio con lo scrittore, che sembra abbia vissuto un amore infelice che lo straziò. Il libro narra di un uomo di maturo di 49 anni nel 1960 che frequentando un bordello si innamora della giovane Laide, ragazzina capricciosa, che racconta di essere una ballerina della Scala e un sacco di altre frottole, con una certa maligna cattiveria, distruggendolo. Il peggio è che Antonio è un signore, di buona famiglia, intelligente e serio che si accorge di essere preso per il naso, presentato a tutti come lo zio, eppure non riesce a fare a meno di questa ragazza. Un’autoanalisi spietata con il coraggio di un linguaggio crudo, non volgare, che certo all’epoca destò qualche protesta. Dorature e glassature non sono previste.
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“L’arabo del futuro - Una giovinezza in Medio Oriente (1978-1984)” di Riad Sattouf

Scritto da   Lunedì, 25 Gennaio 2016 

“L’arabo del futuro - Una giovinezza in Medio Oriente (1978-1984)” di Riad Sattouf
Fauve d’or Angoulême 2015
Premio come miglior opera

Romanzo grafico, non semplice fumetto, dal tratto raffinato e veloce nel disegno, racconta la storia vera di un bambino biondo e della sua famiglia nella Libia di Gheddafi e nella Siria di Hafiz al-Asad, un bambino di una cosiddetta “coppia mista”, due persone che si sono scelte e si amano, due mondi che si annusano e restano separati: non è un confronta tra islam e cristianesimo ma tra la Francia da una parte, l’Europa ed un mondo più o meno libero dove almeno apparentemente è possibile fare ed essere quello che si desidera da una parte; la Libia e la Siria al tempo della dittatura e della guerra, ambienti sociali chiusi, retrogradi. Il mondo della mamma francese e della sua famiglia forse un po’ strampalata con una nonna che si risposa con un uomo, simpatico, che sembra un attore americano e quello del padre siriano, studente a Parigi ai tempi dell’incontro con la futura moglie, intellettuale, professore universitario che in fondo desidera trovare un posto di lavoro nel mondo “arabo” e tornare nella sua Siria, anche solo per sognare di costruirci una casa, almeno per le vacanze…nel luogo meno adatto per passare una vacanza. Il libro finisce proprio così sospeso, con un sogno del padre, la pazienza della moglie che lo segue, l’incredulità del bambino e del lettore che guarda il mondo con gli occhi del piccolo Riad, incredibilmente biondo, l’unico biondo in un mondo di mori, per cui tutti mettono le mani nei suoi capelli, sono attratti da lui ma in fondo lo considerano un ebreo, quindi un potenziale nemico, senza ragione, se non quella di una presunta appartenenza.
La penna di Sattouf, siriano nato in Francia nel 1978, è graffiante e ha la veste di una sceneggiatura, tutta dialogo senza commento. La riflessione è lasciata libera, nella testa del lettore, ma i dialoghi scarni e le espressioni dei volti tratteggiano in modo quasi materico profili, personalità e un mondo surreale che irrompe in una tranquilla famiglia. Serpeggia quasi una rabbia per l’impotenza di veder srotolare tanta violenza soprattutto nel mondo siriano che comincia nei bambini in un’educazione non sentimentale alla guerra e una chiusura che diventa miseria. I bambini giocano solo alla guerra, si sentono patrioti contro gli ebrei, uccidono un cane perché dall’islam è considerato una bestia impura. Ma il confronto – torno a ripetere – non è religioso – come fa notare lo stesso bambino perché il padre non ha mai praticato e non sembra particolarmente credente; è legato all’appartenenza ed è come se tornando nei luoghi dell’infanzia non si riuscisse più a mantenere la lucidità, là dove le emozioni, la nostalgia ci fanno tornare bambini, un po’ ingenui, come un uomo che pur essendo padre si fa coccolare dalla propria madre. Emerge un affresco di come una dittatura, i retaggi della colonizzazione, l’estremismo che serpeggia possono distruggere le coscienze collettive e perfino alterare i giochi dei bambini, con situazioni grottesche come i soldatini verdi (il verde è il colore sacro per l’islam) siriani, con pose plastiche, fiere e coraggiose e i soldatini ebrei che sono blu (il colore della vergogna nel Corano), alzano bandiera bianca, hanno sguardi furbi e quasi non riescono a tenersi in piedi. Per chi ha insorte questi ultimi la battaglia è già persa. La dittatura penetra sotto la pelle con il sistema del sospetto e della paura, della noia, dell’appiattimento della vita: niente informazioni, giornali e libri e tutto molto caro; un’economia distrutta, e un pensiero unico che permette solo una vita collettiva in squadra. La vita di coppia e l’intimità familiare sono avvilite. Quello che è incredibile è l’agilità della scrittura, ironica e spiazzante di fronte alle affermazioni del padre che sembrano quelle di un folle o di un idiota, tanto che nemmeno la moglie riesce a proferire verbo chiudendosi in se stessa. Una grande abilità di restituire un quadro drammatico attraverso gli occhi leggeri di un bambino che ama la mamma e la guarda con tenerezza, ogni giorno più stanca, ma nello stesso tempo vede nel padre il proprio eroe. In ogni caso un testo ricco di informazioni che scorgano con la nonchalance del vissuto quotidiano, quello che accade ad un bambino qualunque, una storia vera.
L’arabo del futuro
Una giovinezza in Medio Oriente (1978-1984)
di Riad Sattouf
Rizzoli Lizard
Collana LIZARD
Pubblicato nel 2014 da Allary Editions
Euro 20,00
Pagine 160
Articolo di Ilaria Guidantoni

“2084 La fin du monde” di Boualem Sansal

Scritto da   Lunedì, 18 Gennaio 2016 
“2084 La fin du monde” di Boualem Sansal
Attesa la traduzione italiana del Gran Prix du Roman 2015!
Romanzo, vincitore del Grand Prix du Roman de l’Académie Française, presto tradotto anche in italiano, che mette insieme la capacità di sfiorare la fantascienza e la visionarietà con la critica sociale e politica, confermando sia la vocazione letteraria di grande eleganza stilistica dello scrittore francofono algerino sia il suo impegno critico, da laico, nell’analisi della società contemporanea e il suo rischio di deriva dittatoriale. Fin troppo evidenti i riferimenti alla società islamica e ai suoi possibili estremismi; una grande prova anche di analisi psicoanalitica della società.
Era atteso da tempo l’ultimo romanzo dello scrittore algerino Boualem Sansal, uno dei maggiori letterati dell’Algeria di oggi, molto letto in Francia dove ha ricevuto il prestigioso Gran Prix du Roman de l’Académie Française 2015 per questo romanzo il cui titolo ricorda certamente 1984 Nineteen Eighty-Four, uno dei più celebri romanzi di George Orwell, pubblicato nel 1949 ma iniziato a scrivere nel 1948 dal cui anagramma deriva il titolo. Come nel libro di Orwell la vicenda, apparentemente fantastica, ambientata in un paese immaginario, è di fatto il ritratto di quello che potrebbe accadere se le vicende attuali prendessero una brutta piega, quella dell’estremismo. In tal senso ricorda anche Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Il lato più affascinante dell’opera di Sansal è legata al fatto che, al di là del titolo, il sapore, più che futuribile, sembra una saga lontana nel tempo, arcaica in qualche modo. Condito da una grande eleganza stilistica, ricca e potente dal punto di vista linguistico, mai ridondante, a tratti poetica in altri graffiante, perfino ironica, è una feroce denuncia di ogni dittatura, nella fattispecie quella religiosa che accieca ed un’analisi sociologica dal punto di vista psicoanalitico implacabile. È anche l’esaltazione dell’amicizia nel suo valore di complicità intellettuale e di impegno comune, che fa venire in mente la definizione che ne diede Seneca, amicitia…cum par volutas honesta parent. La sua preziosità, la capacità che ha di resistere a ogni tentativo del potere predominante e il coraggio che mette in campo di rischiare. E, ancora, è la descrizione della risorsa incredibile dell’uomo quando si ricorda di essere umano, in quell’insopprimibile desiderio di conoscenza, intesa come percorso e dovere esistenziale, preambolo di consapevolezza, irreversibile.
Un romanzo con tutti gli ingredienti della narrativa di fantasia, compresa la nota noir, eppure diviene anche una tessitura filosofica, quasi involontaria, che presenta una lucida concezione dell’esistenza, oltre che un manifesto politico. Al libro e al suo autore, nato nel 1949, residente a Boumerdès, vicino Algeri - il quotidiano la Repubblica nel mese di dicembre ha dedicato una pagina intera annunciando la prossima traduzione in italiano. 2084La fine del mondo (tradotto letteralmente, non si sa quale sarà il titolo italiano) è un testo che per certi aspetti ricorda le ambientazioni e il clima de Il nome della rosa di Umberto Eco, ma anche di Cecità di José Saramago, le cui pagine si divorano, non senza una partecipazione emotiva, alla quale il lettore non riesce a sottrarsi, respirando tutta l’angoscia del protagonista della vicenda e le atmosfere lugubri e soffocanti nelle quali vive. La tessitura sottile racconta la vita nell’Abistan, un impero immenso, il cui nome deriva da quello del profeta Abi, messaggero di Yölah sulla terra, dove per messaggero si intende delegato e autorizzato ad esercitarne l’autorità oltre che l’autorevolezza. Per chi ha dimestichezza e una certa conoscenza con la lingua e la cultura arabo-musulmana, l’allusione è abbastanza evidente anche se ovviamente vengono presi a prestito gli elementi più radicali interpretati in modo deforme, secondo un estremismo terroristico. È evidente infatti la denuncia dei detentori del potere, ritenuti eletti, ma a dire il vero auto-nominatesi tali, e il loro abuso di esercizio con tratti che assomigliano ad ogni dittatura. Il sistema di governo è fondato infatti sull’amnesia (l’unica data che si ricorda è proprio il 1984), della storia, dato che la memoria è quello che ci rende autonomi, carichi di un passato che custodisce la nostra intimità e quindi unici. Ma l’unicità e la creatività sono bandite perché sono incontrollabili, come l’amore. In tutto il libro non si ha il sentore della sessualità, non appaiono figure femminili, se non una madre che sembra occupata esclusivamente dal nutrire il proprio figlio. Altro elemento essenziale è la sottomissione al Dio unico attraverso un sistema di controllo delle stesse idee delle persone. Apparentemente tutti vivono nella felicità e beatitudine che solo la fede sembra assicurare, senza porsi alcuna domanda. Il personaggio centrale, però, Ati, mette in dubbio ad un certo punto tutte le certezze e comincia un percorso senza ritorno, fuori dal coro. Comincerà infatti un’inchiesta sull’esistenza di un popolo di rinnegati che vive in alcuni ghetti senza alcun riferimento alla religione. Anche in tal caso il tema del muro, dei confini, dell’associazione tra fuori e dentro come categorie dello spirito, racconta ampiamente le derive dell’umanità nel corso della storia. Che il riferimento sia al rischio islamizzazione attuale è una trama che si legge in chiaro a partire dal nome della capitale di questo immaginifico paese, Qodsabad, el-Qods, in arabo è Gerusalemme.
Non manca la “guerra santa” e ancora l’obbligo delle preghiere giornaliere che in questo caso sono sette, e ancora l’obbligo di un abito che omologa tutti e distingue allo stesso tempo secondo categorie precise, guarda caso, proprio le donne. Il colore di questa veste ampia, sobria, con cappuccio, il burni– come non riecheggiare il burnous del nord Africa? – individua infatti, rispettivamente, le ragazze vergine, le donne sposate e le vedove. Altra categoria ovviamente non è ammessa. Tra l’altro la versione femminile è il burniqab. Altro riferimento è alla lingua, quella ufficiale, il misterioso abilang, e imposta mentre tutte le altre sono bandite anche se Ati scoprirà che alcuni quando sono in famiglia e pensano di non essere ascoltati, parlano altri idiomi. La lingua è in effetti una visione del pensiero e ogni colonizzatore o potere che si sia imposto nella modernità con l’idea del partito unico ha optato per una lingua unica, mettendo al bando le altre. Non è un caso che l’Islām più tradizionale promuove l’uso della lingua araba e possibilmente dell’arabo classico, dato che il Corano non è tradotto nelle lingue nazionali. Al di là dei riferimenti specifici, il romanzo resta comunque, un grande racconto su ogni assolutismo che sotto varie forme condanna l’umanità alla bestialità: il pensiero unico e la rivelazione unica e universale che pretende sottomissione e fede cieca; rendendo immobile la vita e orientandola solo alla conservazione del sistema per cui, nel caso del libro, l’unica possibilità per circolare liberamente è compiere un pellegrinaggio. Per favorire il mantenimento dello status quo il potere cerca di isolare gli uomini – grazie alla diffusione di una cultura del sospetto - e di diffondere il terrore, il cui effetto più violento e duraturo è l’autocensura dalla quale difficilmente ci si libera. La mancanza di libertà è soprattutto quella del pensiero perché tutto è governato a livello pubblico e disciplinato senza pensare all’unicità della coscienza tanto che in un passaggio si dice “l’abito fa il monaco e la fede il credente”, ma l’abito e la fede sono imposte anche nel modo, rispettivamente, di indossarlo e praticarla.
2084 La fin du monde
di Boualem Sansal
Romanzo
Editions Gallimard, 2015
Grand Prix du Roman de l’Académie Française 2015
Euro 19,50
Articolo di Ilaria Guidantoni

“La letteratura è un cortile” di Walter Mauro

Scritto da   Domenica, 17 Gennaio 2016 

La letteratura contemporanea italiana, la stagione del Neorealismo e il suo superamento, le contaminazioni internazionali, tra parole e musica, raccontata come un incontro, una serie di appuntamenti in un cortile. Walter Mauro conferma la sua vocazione narrativa, la raffinatezza del suo scrivere con l’immediatezza e la naturalezza di chi la cultura la vive sulla propria pelle, come un’emozione musicale.
È il secondo libro di Walter Mauro, critico letterario e musicale militante, che recensiamo su queste pagine. Allievo di Ungaretti, scomparso nel 2012, ha incontrato i più grandi del Novecento, intrecciando fin da ragazzo musica e letteratura, anche per la formazione che ha ricevuto dal padre, appassionato di Wagner – reazionario in musica come lo definisce lo stesso autore - e antifascista allo stesso tempo. In questo libro sceglie i suoi ricordi, soprattutto quelli del biennio 1966-67 particolarmente vitale, per certi aspetti straordinario: due anni di incontri singolari. 
È proprio l’incontro tra persone che Mauro mette al centro della propria antologia facendoci rivivere l’atmosfera di decenni vitali, di relazioni umane prima che di pagine scritte. La storia comincia a Bari dove l’autore racconta di essere diventato uomo. Parliamo del 1941, dell’editore Laterza e della figura di Benedetto Croce. Nel 1943 il padre, pilota di aeronautica è trasferito a Roma, e la famiglia intraprende il viaggio a bordo di un camion perché di treni non ce n’erano. La risalita lungo la Penisola diventa la prima tappa di un percorso che in gran parte si svolge attraverso i libri della biblioteca del padre, quasi un “sacrario”, aperto alle voci più varie. Al padre naturale si aggiunsero presto i padri della poesia, Giacomo Leopardi e poi Giuseppe Ungaretti, quindi il jazz, una visione di vita, un modo di sentire prima che un genere musicale amato. Interessante in questa passeggiata ariosa, quanto densa di informazioni, offerte con la naturalezza di chi le ha metabolizzate, perché vissute, amate, prima di averle studiate, il confronto tra anime dialettiche che Mauro non esita mai a far incontrare, nella vita o sulla scena, così a cominciare da Natalino Sapegno e Giuseppe Ungaretti che tengono un corso sulla poesia di Leopardi in concomitanza offrendo, l’uno un approccio colto, filologico, l’altro più emozionale che rintraccia le origine del poetare leopardiano in Francesco Petrarca. Di Ungaretti Mauro ama soprattutto la grande forza innovativa che a suo parere né Quasimodo né Montale sono riusciti a raggiungere, al di là dei premi e dei riconoscimenti. A questo proposito ricorda, concludendo amaramente, il suo cammino nell’Italia dei libri, scrittori ed editori, che ad un certo punto la selezione per la pubblicazione avviene sulla base della stima delle vendite e non del valore intrinseco della scrittura con la conseguente commercializzazione dei premi. Non che in passato siano mancate le polemiche sui riconoscimenti anche se di questi appuntamenti – Mauro ha perso il conto delle giurie delle quali ha fatto parte – conserva il bel ricordo di occasioni di incontri, ancora una volta.
La vita di Mauro si snoda con il ritmo serrato ma non affannato del peregrinare nel mondo, tra interviste, racconti e scambi di idee, un continuo viaggiare nell’umanità, senza mai perdere le proprie radici come l’attaccamento a Bari e alla sua Puglia, grazie al richiamo degli amici, dove per la prima volta si è ubriacato di jazz.
È poi la volta del Neorealismo, del recupero del verismo e dei rapporti talvolta conflittuali con il PCI da parte degli autori di sinistra, quando letteratura e impegno politico rivoluzionario non solo facevano rima ma erano diventati sinonimi, da Elio Vittorini e la sua uscita dal Partito, alla malinconia di Cesare Pavese, alle Langhe di Beppe Fenoglio, fino al personaggio controverso di Giuseppe Berto – che io stessa ho scoperto tardi – emarginato perché non engagé nell’unico senso ammesso in quegli anni. È l’autore de Il male oscuro, un testo profetico sulla depressione che sarebbe diventata il vero male dell’umanità. Per Mauro invece non contano le etichette ma prevale la curiosità, l’ascolto di ogni rivolo di sensibilità umana, l’irresistibile desiderio di conoscere l’umano.
A Italo Calvino riserva il podio d’onore della letteratura del Novecento, colui che riuscì a fondere impegno e immaginazione senza guinzaglio, in un dotto intreccio simbolico che ne fa l’autore di un realismo magico (la definizione attribuita a Calvino è mia) della letteratura italiana e che disse che viviamo un periodo “tra un garofano e una spada” che ben simboleggia quel nodo tra mondo dei sentimenti, voglia di evasione e di fantasia e impegno civile.
Sarà il fiorentino Vasco Pratolini con Metello a chiudere la stagione neorealistica cercando di portare questa contraddizione in un’armonia lirica. Ma Pratolini (ndr) aveva la lezione rinascimentale della sua Firenze. Eppure anche il grande Calvino non era scevro dai vizi dell’uomo qualunque, il peggiore dei difetti danteschi – sottolinea Mauro – l’invidia. Ecco perché la letteratura è un cortile, di pettegolezzi, amori, ripicche ed è per questo profondamente umana e affascinante.
Accanto all’Italia un posto speciale nella formazione di Mauro ce l’ha la Francia, in particolare il Festival Jazz di Parigi del 1949. Nella capitale Mauro passa alcuni anni, immerso tra jazz ed esistenzialismo e in questo libro accenna solo alla storia di Juliette Gréco e Miles Davis, al quale dedica anche un libro, Miles e Juliette (recensito su queste pagine). Mauro ha la capacità di rendere domestici i grandi personaggi della storia come il caso di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir che incontrava all’Hotel Nazionale a Roma.
Nei sentieri romani si ritrovano Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani e Leonardo Sciascia, tra gli altri .
Poi il nostro autore prende il largo verso la scena internazionale nella sfera dei paesi che hanno vissuto drammi storici come la Grecia di Vassilikos del colpo di Stato dei Colonnelli, lo scrittore che non si considerò mai in esilio ma solo distante fisicamente dalla patria; la Spagna del poeta dissidente Rafael Alberti e dell’amata moglie che con lui condivise un destino difficile; e ancora il Cile e le lacerazioni che attraversarono il mondo tra gli Sessanta e Settanta. Nella letteratura cresce il disagio dell’uomo contemporaneo, l’assurdità della persecuzione e della tortura presente come nel Processo di Josef Kafka, o il rapporto sgrammaticato con il sesso del Il lamento di Portnoy di Philip Roth o ancora il dramma corale di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez.
Sono riflessi che rispecchiano la caduta di binari che consentono tracciati regolari, nel sociale come nell’individuale e che, a ben guardare, vengono da lontano. Era infatti il 1943 quando Duke EllingtonBlack, Brown and Beige sull’integrazione raziale negli Stati Uniti. La letteratura testimonia la realtà, la racconta, si sforza di comprenderla, consola ma purtroppo non sembra trovare una via d’uscita, proprio come la vita.
La letteratura è un cortile
di Walter Mauro
Giulio Perrone Editore
Settembre 2014
Euro 10,00
Articolo di Ilaria Guidantoni
www.saltinaria.it/recensioni-libri/libri/ppp-pasolini-un-segreto-italiano-di-carlo-lucarelli-recensione-libro.html