giovedì 31 ottobre 2013

Editoriaraba - Al via la 18° edizione del Salone Internazionale del Libro di Algeri (con polemiche)


È stata inaugurata ieri dal capo del governo Abdelmalek Sellal la 18° edizione del Salone Internazionale del Libro di Algeri, che oggi apre ufficialmente al pubblico. La Fiera, che resterà aperta fino al 9 novembre, è organizzata al Palais des Expositions des Pis Maritimes, e quest’anno ha come slogan: “Aprimi al mondo”, che dovrebbe testimoniare l’apertura dell’Algeria e della sua letteratura al resto del mondo, appunto.

Sono previsti infatti più di 900 espositori provenienti da 44 paesi diversi, Cina inclusa – ed è la prima volta, e 260 editori saranno algerini. La parte del leone la farà, com’è prevedibile, l’industria del libro francese. Rispetto allo scorso anno, inoltre, c’è stato un incremento del 22% del numero degli espositori e il programma culturale è stato ulteriormente arricchito rispetto alle edizioni passate.

L’Algeria guarda non solo all’Africa con i panel di “Esprit Panaf” ma anche alle letterature internazionali con il polo di “Littératures”, che prevede incontri con gli scrittori internazionali presenti, ovvero: la scrittrice libanese Hoda Barakat, lo scrittore iraniano Kader Abdolah, l’esperto di letteratura maghrebina Charles Bonn, dalla Francia, come anche lo scrittore Barouk Salame; e poi ancora Anna Moï, scrittrice e cantante vietnamita, il vincitore del Booker arabo Saoud al-Sanoussi, del Kuwait, l’autrice argentina Elsa Osorio, il libico Kamal Ben Hameda, lo scrittore tunisino Habib Selim e infine, da Haiti, lo scrittore Louis-Philippe Dalembert.

Le biografie degli autori internazionali e algerini presenti in Fiera sul link presente su Editoriaraba.

Ci sarà anche Yasmina Khadra, che presenterà il suo nuovo libro uscito per la francese Juilliard.

Altri due “poli” completano il programma culturale: “Nouveautés”, dedicato agli scrittori che hanno appena pubblicato le loro opere in arabo, francese o tamazigt, è una…novità dell’edizione 2013 e poi “Histoire/actualité”. Infine, in collaborazione con FIDBA, il Festival internazionale del fumetto algerino (il genere del fumetto pare stia spopolando nel paese), verrà allestita un’esposizione dedicata al fumetto che comprenderà una libreria specializzata e uno spazio per gli incontri con gli autori.

E come ogni Fiera del libro che si rispetti, le critiche non sono mancate: da chi la descrive come emblema della “notte culturale algerina” e si chiede perché i libri di uno scrittore come Boualem Sansal alla Fiera non si trovino, causa censura (Sansal è autore di Il villaggio del tedesco, romanzo controverso in cui il nazismo e il fondamentalismo di matrice islamica vengono paragonati. L’ho letto, l’ho criticato, non mi è piaciuto e ho trovato l’accostamento inutilmente provocatorio. 

Altri hanno definito la fiera più un grande mercato per vendere libri, che un vero e proprio salone (niente di nuovo in questa critica), e l’Algeria un paese che non dà spazio ai giovani scrittori. L’editore delle Éditions Koukou, infine, ha dichiarato che quest’anno boicotterà la manifestazione.

mercoledì 30 ottobre 2013

Editoriaraba - La letteratura palestinese, un racconto collettivo come unica “Storia possibile”


Su Editoriaraba un estratto da un saggio sulla letteratura palestinese inviato da Silvia Moresi, collaboratrice del blog, che lo aveva scritto nel 2010 in occasione di un concorso istituito dall’associazione “Questioni di frontiera” e con cui aveva vinto. Il saggio intero è scaricabile da un link sul blog di Editoriaraba.

 di Silvia Moresi

"Chi impone il proprio racconto eredita la Terra del racconto", così dichiarava in un’intervista Mahmud Darwish, uno dei più grandi poeti palestinesi.

Per un popolo senza nazione come i palestinesi, la letteratura, cioè le pagine di scrittori e poeti che narrando eventi personali (e non) ricompongono un racconto collettivo, è l’unica storia possibile. Una contro-narrazione, in cui i colonizzati non siano più oggetti della Storia ma ne diventino soggetti, è l’unico mezzo per riaffermare la propria esistenza, come individui e come popolo.

La letteratura palestinese, come è ovvio, è fortemente influenzata dagli avvenimenti che hanno sconvolto e che ancora sconvolgono la Palestina. Gli scrittori contemporanei si confrontano, anche attualmente, con le tematiche dell’identità, della cancellazione della memoria e dello sradicamento, facendo, appunto, dei loro romanzi e delle loro poesie strumenti essenziali per il doloroso percorso di riemersione esistenziale di questo popolo.

Queste tematiche sono affrontate spesso in maniera molto diversa dagli scrittori dei Territori, d’Israele o da quelli in esilio che vivono il loro essere palestinesi in maniera sostanzialmente differente.

Il concetto di identità, ad esempio, è descritto nelle pagine degli scrittori arabi d’Israele come un qualcosa di schizofrenico. Questa comunità esiliata nella sua stessa Terra, non ha un luogo in cui sognare di poter tornare. Il movimento sionista, infatti, con la distruzione reale e concreta della Palestina, ma anche con la distruzione della sua narrazione storica e simbolica, cercò di rendere questo territorio un blank space, una pagina bianca su cui poter ri-scrivere una nuova storia, attraverso il processo di rebraizzazione della terra.

Fiumi, città e villaggi furono rinominati secondo nomi biblici e persero i loro nomi arabi, tutto fu reso irriconoscibile per i palestinesi rimasti che, di colpo, diventarono una comunità che non era al suo posto. Insomma, una sradicamento storico e culturale per determinare un oblio identitario. Emile Habibi, forse il più famoso scrittore arabo israeliano, così scriveva:

La mia patria? Io mi sento come un profugo in un paese straniero. Voi sognate il ritorno e vivete questo sogno, ma io, dove ritorno?

(L’amore nel mio cuore, Emile Habibi, in Palestina. Tre racconti, a cura di Isabella Camera D’afflitto, Ripostes 1984).

Sayed Kashua, scrittore arabo israeliano contemporaneo che scrive in ebraico, racconta in maniera perfetta nei suoi due romanzi, Arabi Danzanti e E fu mattina, tutta la precarietà di un’identità in bilico tra due culture, una a cui si appartiene e l’altra, a cui ci si vorrebbe assimilare per sopravvivere, che ti rifiuta:

Sembro più israeliano di un israeliano calzato e vestito. Sono sempre contento quando gli ebrei me lo fanno notare. […] Un tempo si capiva che ero arabo. Mi riconoscevano. [...] Non mi ero mai sentito così umiliato. Fu per quello che mi trasformai in un esperto di simulazione di identità.

(in Arabi danzanti, Sayed Kashua, Guanda 2002).

Editoriaraba - La Fiera del libro


A Tunisi è in corso la Fiera del libro.  Con il Paese scosso da attentati e manifestazioni, e bloccato in un’impasse politica difficile da districare, viene da chiedersi quanti saranno i tunisini che avranno il tempo (o semplicemente la voglia) di visitare il padiglione della manifestazione culturale, che quest’anno “festeggia” i suoi primi 30 anni.
Non è solo la situazione politica a minacciare la buona riuscita della Fiera: secondo infatti alcuni dati sull’affezione alla lettura e alla circolazione del libro in Tunisia, pubblicati nelle scorse settimane da al Huffington Post Maghreb, il libro in Tunisia non gode di buona salute. Solo 100 titoli sono stati pubblicati nel paese dall’inizio dell’anno da circa 190 case editrici (ma del cui numero dubito). Libri che vengono distribuiti nelle circa 20 librerie concentrate soprattutto nelle grandi città (ok, questo dato è allarmante, se qualcuno vuole/può smentirmi mi scriva).

Come nota il quotidiano online, la letteratura tunisina però sarebbe “rifiorita” dopo gli eventi rivoluzionari del 2011: i librai sarebbero stati letteralmente invasi da una mole gigantesca di pubblicazioni aventi come tema la rivoluzione. Ma l’ invasione della saggistica a sfondo socio-politico avrebbe oscurato la produzione di fiction, cioè di narrativa, perché la prima – semplicemente – vende di più.

Inoltre in Tunisia, come in tutto il Maghreb, l’editoria soffre del complesso del colonizzato: come nota il francese Franck Mermier nel suo saggio Il libro e la città. Beirut e l’editoria araba (Mesogea 2012), da un lato l’editoria francese “risucchia i principali autori maghrebini francofoni”, che preferiscono pubblicare i propri libri in Francia, dove una più efficacie distribuzione è assicurata, dall’altro l’editoria maghrebina “copre di più il mercato francofono che quello arabo”, col risultato che la produzione in arabo passa in secondo piano. A corollario infatti Mermier nota come la letteratura in arabo sia appannaggio quasi esclusivo degli editori mediorientali, in cui io farei comprendere naturalmente l’Egitto.

Non che libri in arabo in Tunisia non esistano, anzi, vengono pubblicati anche dalle “major”, come Cérès. Ma qual è lo spazio per la produzione in arabo classico in un paese in cui la maggioranza della popolazione parla in francese o in darija, cioè in dialetto?

L’HuffPost lancia la provocazione: e se gli autori tunisini scrivessero in dialetto? Avrebbero maggiore presa sui tunisini? Di certo sarebbe un bel cambio di passo che non potrebbe non avere effetti anche sugli altri paesi di lingua araba che vivono la diglossia fusha – darija (quando non il multilinguismo arabo-francese-inglese).

Tutti temi scottanti che la fiera di Tunisi quest’anno promette di affrontare nelle numerosi occasioni di dialogo e incontro tra editori, autori e rappresentanti della cultura del mondo arabo che sono state programmate. In particolare verranno affrontati i temi del ruolo del romanzo e degli intellettuali nel mondo arabo; il problema della lettura in Tunisia; l’immagine dell’ “Altro” veicolata nel romanzo arabo e lo stato della traduzione della letteratura araba nelle lingue straniere.

Il paese ospite d’onore sarà il Senegal, a testimoniare l’interesse degli editori tunisini nei confronti del mercato editoriale non solo senegalese, ma africano in generale.

Tra gli invitati internazionali invece figurano, tra gli altri: lo scrittore e giornalista libanese Abbas Beydoun, il direttore del festival di letteratura di Berlino Ulrich Schreiber, il poeta palestinese Ghassan Zaqtan, lo scrittore yemenita Ali al-Muqri, lo scrittore kuwaitiano Saoud al-Sanousi, lo scrittore sudanese Amir Tag Elsir e lo scrittore messicano Alberto Ruy Sanchez.

La Tunisia oggi ha senz’altro bisogno di un clima di pacificazione nazionale. E se si cominciasse da una vera ed effettiva politica del libro e della lettura?

Intanto tra i giovani tunisini le cose sono già cambiate, anche grazie ai social network: un gruppo su Facebook dedicato allo scambio di opinioni sui libri ha quasi raggiunto i 2.000 partecipanti.


Tre di questi, Sami Mokaddem, Souha Cherni e Atef Attia, hanno unito le forze e hanno deciso di fondare una casa editrice, Pop Libris, e che ha come obiettivo quello di pubblicare ad un prezzo accessibile a tutti una letteratura pop…olare e di evasione, andando a pescare tra i generi più innovativi, come la letteratura fantastica, il thriller, la letteratura romantica etc. che non trovano spazio nelle case editrici tunisine.

Finora hanno pubblicato solo due libri in francese, ma non precludono affatto la possibilità di pubblicare testi in arabo.

La sfida alle nuove generazioni di lettori, e scrittori, tunisini è forse solo all’inizio.

martedì 29 ottobre 2013

Una fiaba dei giorni nostri



“E’ arrivato l’ambasciatore”
di Annamaria Piccione

La canzone italiana che fa da colonna sonora al libro è il mood del libro giocato sull’intimità dei rapporti veri e sul ruolo fondamentale della lingua con il suo carico di emozioni, il gusto del narrare, quell’ascoltare incantato dell’infanzia che disegna una memoria indelebile e archetipa nella persona perché è la memoria del cuore come certi sapori e profumi che si portano alla mente i primi ricordi. E’ tra l’altro per me un suono e un refrain fin troppo noto che mio padre canta ai miei nipoti e questo non mi ha potuto che colpire e mettere in un’empatia fin troppo facile. La storia per ragazzi è anche certamente, più di altre, una novella per adulti, quasi una metafora, potrei definirla una docufiction della realtà che stiamo vivendo, talora distrattamente. E’ così infatti che uno dei protagonisti, nonno Michele, un medico di sensibilità nonché impegnato politicamente in senso civile, finché non gli capita un incidente di percorso – è il caso di dire – un incontro inaspettato che sconvolgerà la propria vita, che non si accorge di un mondo che gli scorre accanto.
La lingua non ha l’ingenuità tipica della letteratura per l’infanzia o comunque per la prima fase dell’adolescenza, non si colora di elementi teneri e di facile apprezzamento ma attraversa la complessità dei personaggi e coglie la maturità arrivata anzi tempo del protagonista, un ragazzo eritreo, Ayub, partito dall’Eritrea per cercare il fratello Hakim venuto in Italia in cerca di fortuna e poi scomparso nel nulla come sembra. E’ in seguito a questo episodio e al suo esito tragico che la mamma di Ayub si è ammalata di dolore e che la ragione per la quale piccolo decide di intraprendere l’avventura.
Diversamente dalla favole classiche non c’è in questo un lieto fine a senso unico ma la complessità della ricerca della felicità che è il messaggio bello e insieme difficile da accettare del racconto. Il protagonista conosce un’opportunità e uno scenario di sviluppo potenziale per la sua vita che non avrebbe mai neppur immaginato se non ci fosse stato l’allontanamento di Hakim e la depressione della madre. Probabilmente se avesse raggiunto quello riteneva il suo desiderio, il ricongiungimento con il fratello, non avrebbe trovato una famiglia ad accoglierlo e non si sarebbe impegnato per un futuro di studi importante. Non è tanto però la fantasia di cosa sarebbe stato, perché la storia non si scrive con i sé; è piuttosto la consapevolezza che la vita non è un tracciato lineare e che la sua meraviglia spesso ci arriva da un dolore, una delusione, che la vita è intrecciata a doppio filo con la morte.
L’elemento del sogno non è quello che arriva con il tocco di una bacchetta magica, quanto la capacità di cogliere il miracolo e lo stupore nelle piccole cose, perché la vita spesso è più fantasiosa dell’immaginazione umana.
E’ una novella decisamente per giovani moderni abituati a rinunciare ad un sogno idilliaco che può motivarli a rimboccarsi le maniche nella consapevolezza che in fondo la costruzione del proprio futuro è una responsabilità personale. Ayub non si rassegna mai e le porte di una vita nuova gli si spalancano nel momento peggiore, quando finisce sotto le ruote di una macchina. Ma non è mai detta l’ultima parola.
Nel libro è centrale l’incontro tra le persone e i caratteri sono disegnati senza assolutismi e semplificazioni, con sfumature e contraddizioni che rendono i personaggi reali e credibili, capaci di piegarsi alla vita in modo sorprendente.
Da sottolineare è l’uso della lingua e dei suoi diversi registri come un elemento fondamentale per disegnare le persone e le sfumature e il dialogo tra le culture attraverso la lingua che diventa nel protagonista la chiave di accesso, essendo l’unico a possedere sia il tigrino sia l’italiano.
Infine, in un mondo sempre più piccolo, è interessante la scoperta di un paese lontano, l’Eritrea, per i suoi legami con l’Italia, perché molti luoghi ormai dimenticati ci fanno da specchio per la memoria e per ritrovare, quindi capire, parte della nostra storia.
E’, in un’ultima analisi, un modo per introdurre i ragazzi nella vita quotidiana, in un mondo nel quale il viaggio comincia a casa propria dall’incontro inevitabile con l’altro e con il quale occorre trovare un codice comune.

“E’ arrivato l’ambasciatore”
di Annamaria Piccione
Casa Editrice Mammeonline
Collana Crisalidi e farfalle
Illustrazioni di Antonio Boffa
8,00 euro

mercoledì 23 ottobre 2013

"Lampedusa" di Marta Bellingreri


Conversazioni  su isole, politica, migranti con il Sindaco Giusi Nicolini

«Che posso dire, io, da Lampedusa? Posso dire che quantomeno salvarli è doveroso. Quando chiedo di non lasciare sola Lampedusa, chiedo in realtà di non abbandonare sole queste persone a un destino assurdo. Chiedo di cominciare a pensare a un sistema di accoglienza reale e non fittizio non solo a Lampedusa, ma in tutta Italia. Chiedo di cominciare a capire che c’è posto e spazio e che abbiamo bisogno dei migranti. […] La politica, soprattutto italiana, ha bisogno di una grande rivoluzione etica: non si ruba, non si spreca il denaro pubblico. Non si calpesta la Costituzione. Non si calpestano le leggi e non si calpestano i diritti umani. Non è gridando all’invasione e ignorando i diritti umani che si devono chiedere i voti. […] Ebbene, la grande maggioranza delle persone che passano da Lampedusa ha poi avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico o una protezione umanitaria. E, allora, la domanda che pongo è: perché in un Paese come l’Italia e in Europa il diritto di asilo deve essere chiesto a nuoto? Perché bisogna lasciare che madri con i bambini in braccio si imbarchino per il Mediterraneo? Perché bisogna occuparsi solo dei sopravvissuti che arrivano qui? Non è un crimine aspettare che i migranti siano decimati dal mare? Comunque i profughi partono e arrivano, non hanno un’altra possibilità».

"Bisogna parlarne. Anoressia, malattia sociale" - Resoconto di quanto emerso nell’incontro del 16 ottobre 2013 a Milano, Palazzo Marino


2,2 milioni le ragazze che in Italia soffrono di un disturbo alimentare psicotico. 
A Milano sportelli di ascolto in 40 Istituti intercettano 1.500 ragazzi ogni anno. 
La tendenza non è in calo, mentre crescono anche le forme di autolesionismo.

Si è tenuto il 16 ottobre scorso a Palazzo Marino l'incontro sul tema dell'anoressia come malattia sociale, dal titolo "Bisogna Parlarne" e sullo spunto della storia di vita raccontata da Serena Libertà nel libro "Anoressia delle Passioni" (Albeggi Edizioni). L'incontro è stato moderato dalla giornalista Ilaria Guidantoni e ha visto la partecipazione di operatori del settore, medici, cittadini interessati al tema e ragazzi.

Pierfrancesco Majorino, Assessore alle politiche sociali e alla cultura della salute del Comune di Milano, ha dichiarato che nell'ambito del piano di sviluppo sul welfare del comune di Milano è stata forte la volontà di mettere al centro dell'azione la persona. L’obiettivo del Comune di Milano è proprio un'alleanza tra soggetti per la promozione della persona. L'Assessore ha ricordato che i dati sono sconcertanti: sono oltre 2,2 milioni le ragazze che soffrono di un disturbo alimentare. Questa realtà obbliga a una riflessione condivisa per capire le direzioni verso le quali muovere gli sforzi.

Stefano Tavilla, Presidente dell'Associazione Mi Nutro di Vita e testimone di una storia personale drammatica (ha perso una figlia a causa di questa malattia) è molto impegnato in attività di prevenzione, soprattutto nelle scuole, e in azioni volte a creare una nuova cultura sui disturbi alimentari. Le famiglie che si trovano immerse in queste tragedie si sentono sole e in colpa. La Giornata nazionale che l'associazione promuove per il 15 marzo di ogni anno serve proprio a far sentire le famiglie meno sole e ad aiutare la creazione di una rete di assistenza e di solidarietà.

Rocco Cardamone, presidente AIPA e psicologo dell'associazione Mi Nutro di Vita ha infatti ricordato che la maggior parte delle ragazze anoressiche sconta un pregiudizio, si sentono etichettate. Hanno bisogno di ascolto, prima di ogni altra cosa. 

Un bisogno che Serena Libertà, autrice del libro che ha dato spunto all'incontro, mette al centro di ogni forma di assistenza e di cura. Le cure farmaceutiche possono servire per non sprofondare, sostiene l'autrice, o a risolvere i problemi fisici connessi con la malattia, ma bisogna stare attenti a non anestetizzare chi si sente già anestetizzata. L'anoressia crea nelle persone un distacco dal mondo, con il corpo scollegato dalle emozioni e con una forma di isolamento che va combattuta, non accentuata. L'approccio peraltro non può essere unico, la cura non può essere una sola. La parte spirituale è fondamentale, sostiene l'autrice: bisogna imparare a perdonare sé stessi, per il male che ci si auto infligge, e gli altri, per le mancanze, o le assenze di cui ci si sente vittima.

Domenico Cosenza, psicoterapeuta, Presidente della FIDA-Milano e Presidente dell’Associazione Kliné, ha sottolineato come le famiglie possono avere difficoltà ad interpretare i bisogni dei propri figli ed è su questo che vanno aiutate. Serve tempo, ascolto, apertura, tutti ingredienti che si trovano sempre più raramente nelle famiglie italiane e che spesso le singole persone fanno fatica a ritrovare in sé stesse. 

E' diventato un problema di stile di vita, individuale e collettivo: come non pensare, per esempio - come ha ricordato Stefano Erzegovesi, neuropsichiatra nutrizionista - all'impatto che l'approccio dell'industria alimentare moderna e della relativa pubblicità – estrema facilità e velocità nel consumare il cibo, grande gratificazione aromatica ed estetica dei cibi - ha nei confronti dello stile di vita alimentare e sociale della famiglia rispetto al passato? 

Un tema, quello dei messaggi pubblicitari (ad esempio sull'uso dell'immagine della donna) molto sentito dall'Assessore Majorino. E proprio lui, con l'attenzione dimostrata verso questo tema e con la disponibilità ad ospitare l'incontro proprio a Palazzo Marino, ha testimoniato la volontà di fare in modo efficace e coordinato, migliorando quello che già sembra essere un modello funzionante sul territorio. 

Aurelio Mosca, direttore del dipartimento ASSI ASL Milano ha infatti illustrato il servizio già attivo della rete dei consultori famiiari della ASL Milano, che conta tra i 250 e i 280 operatori e un'utenza complessiva di 40.000 persone all'anno. Il servizio è presente in oltre 40 istituti superiori di Milano con sportelli di ascolto nei quali gli operatori incontrano mediamente 1500 ragazzi per anno scolastico. Quello che si sta notando è che accanto ai disturbi alimentari, che non tendono a diminuire, stanno emergendo anche i comportamenti autolesivi (il tagliarsi con lamette e coltelli) con la deriva pericolosa rappresentata dall'emulazione. Il lavoro preventivo che a Milano si fa interviene sugli stili di vita e sulle "capacità" di vita, aiutando i ragazzi a gestire le emozioni e il disagio che deriva dall'incapacità di affrontarle e aiutando gli insegnanti a capire ed interpretare i segnali che vengono da questi ragazzi e a rapportarsi con loro e con le rispettive famiglie.

All’incontro sono intervenuti anche due rappresentanti della Comunità Nuovi Orizzonti, che hanno portato una testimonianza sull’importanza di un percorso spirituale, oltre che medico e psicologico, Riccardo Canova, Medico-psicoterapeuta della famiglia Ospedale Vizzolo Predabissi Melegnano e Giuseppe Vico, Università Cattolica, che ha firmato la prefazione del volume.

lunedì 21 ottobre 2013

Editoriaraba - Di fortezze, frontiere, viaggi e parole


Tante, tantissime parole sono state pronunciate e scritte nelle ultime settimane a proposito delle centinaia di uomini, donne e bambini che, partiti dalle coste del Mediterraneo del Sud, hanno trovato la morte a poche centinaia di metri dalle coste della nostra Lampedusa. Come ha scritto Gabriele del Grande, questa è una “guerra che l’Europa combatte ogni giorno in frontiera, contro i poveri che rivendicano il diritto alla mobilità disobbedendo alle nostre folli leggi sull’immigrazione”.

E si è fatto un gran parlare anche delle condizioni di viaggio dei migranti e dei profughi, della sofferenza, del disagio, del dolore, delle speranze e di quel sogno di una vita (non migliore, a volte proprio il sogno di una vita e basta) che li spinge a prendere la decisione di affidarsi ai trafficanti, e affrontare il mare per raggiungere l’Italia, la terra promessa.

Per capirli, forse sarebbe bastato leggere gli scrittori arabi, in particolare i nordafricani, che scrivono di viaggi e migrazioni già da un bel po’. 

Oltre a libri che parlano del Mediterraneo, nell'articolo ci sono anche due brani che parlano di altre frontiere, per non dimenticarci che in tutto il mondo ogni giorno centinaia di persone rischiano la propria vita per oltrepassare le frontiere delle tante fortezze di questa Terra.

Tahar Ben Jelloun, Partire
Parecchie di queste ragazze erano innamorate di Azel, ma lui le scoraggiava dicendo loro la verità a proposito della sua situazione: “Ho ventiquattro anni, sono laureato, non ho un lavoro, non ho soldi, non ho una macchina, sono un caso umano, sì, sono anch’io alla deriva, pronto a tutto pur di andarmene, pur di vedere questo paese solo in cartolina (…). Io ho già tentato di attraversare i quattordici chilometri che ci separano dall’Europa, ma sono stato truffato; e, comunque sia, ho avuto più fortuna di mio cugino Noureddine, che è annegato a pochi metri da Almeria, non so se mi spiego”. Le ragazze lo ascoltavano, e alcune di loro piangevano. Venivano tutte da famiglie in cui qualche parente aveva tentato di partire allo stesso modo. (traduzione dal francese di A. M. Lorusso, Bompiani 2008)

Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole
Nessuno dei quattro aveva voglia di parlare, non solo perché la fatica li aveva stremati, ma perché ognuno era immerso a fondo nei propri pensieri. L’enorme camion fendeva la strada insieme con i loro sogni, le loro famiglie, le loro ambizioni e le loro speranze, miseria e disperazione, forza e debolezza, passato e futuro, come se stessero spingendo un’immensa porta verso un nuovo destino sconosciuto. Tutti gli occhi erano puntati sulla superficie di quella porta, come ad essa legati da fili invisibili. (traduzione dall’arabo di I. Camera D’Afflitto, Sellerio, prima edizione 1991)

Fouad Laroui, Essere qualcuno, in “L’esteta radicale”
Vedono passare delle barche lontano, delle navi cisterna, dei traghetti. Dopo il freddo della notte, adesso è il sole che li acceca e brucia loro gli occhi. (…) Di quando in quando dei delfini vengono in gruppo a fare delle capriole davanti alla barca, per poi andarsene. Lahcen è affascinato da questi animali che non aveva mai visto in vita sua e che sembrano divertirsi mentre lui soffre atrocemente. Vale meno di un animale? (traduzione dal francese di C. Vezzaro, Del Vecchio Editore 2013)

Hassan Blasim, Il camion per Berlino, in “Il matto di piazza della Libertà”
Il camion per Berlino, pero, questa volta non proseguì il suo viaggio notturno se non per cinque ore, poi si arrestò di colpo, fece inversione e tornò sui suoi passi ad una velocità folle. Nell’oscurità, i giovani sentirono una stretta al cuore. (…) Si misero a bisbigliare. Alcuni recitavano preghiere o versetti del Corano, tra sé e sé o a voce appena percettibile. Un ragazzo si mise a ripetere ad alta voce il versetto del Trono. La sua bella voce era però guastata da un tono piagnucoloso che accresceva l’angoscia degli altri passeggeri. (traduzione dall’arabo di B. Teresi, Il Sirente 2012)

Laila Lalami, La speranza e altri sogni pericolosi
“Tutti fuori dalla barca, ora!”, grida Rahal. “Da qui in poi dovete continuare a nuoto”. Aziz si lascia immediatamente cadere in acqua e comincia a nuotare. Come gli altri passeggeri, Murad si limita invece a guardare stupefatto il capitano. Si aspettava di essere portato fino a riva, dove avrebbe potuto facilmente disperdersi e poi nascondersi. L’idea di dover nuotare fino alla costa è terribile, soprattutto per chi non è originario di Tangeri e non è abituato alle sue acque”. (traduzione dall’inglese di M. G. Cavallo, Fusi orari 2007)

Rachid Nini, Diario di un clandestino
Ieri è naufragato un barcone. L’ho visto in tivù. Come navi stremate, sulla costa rocciosa giacevano sette cadaveri. Stavo mangiando quando mi sono ritrovato davanti quelle immagini e, di colpo, mi è passata la fame. C’era qualcuno che li trascinava fino alla spiaggia e li copriva con dei teli. I corpi fradici erano stati messi in fila uno accanto all’altro. (traduzione dall’arabo di C. Albanese, Mesogea 2011)

Editoriaraba - Tour italiano per “Golda ha dormito qui” di Suad Amiry


La scrittrice e architetto palestinese sarà in tour in diverse città italiane per presentare la traduzione in italiano del suo ultimo romanzo Golda ha dormito qui, tradotto da M. Nadotti e pubblicato da Feltrinelli.

L’ultima volta che era stata in Italia, ospite dell’Università di Venezia, Amiry aveva per l’appunto parlato di questo libro, in cui, aveva detto, il focus privilegiato è sul “concetto di casa e il rapporto che gli uomini creano con le proprio case: il luogo di svolgimento è la Palestina del 1948, quando centinaia di migliaia di persone furono costrette ad abbandonare le proprie case, portando con sé solo pochi oggetti, memorie e ricordi di una vita che non sarebbe mai più tornata”.

La sinossi (presa dal sito della Feltrinelli) così recita: Di cosa è fatta la bellezza di una casa, se non della vita di chi la abita? Ma quando accade che un intero popolo si trovi all’improvviso espropriato delle sue dimore, la domanda che passa, amara, di bocca in bocca è soltanto una: che fine fa quella bellezza, e che fine fa l’anima di chi in quelle case, in quei palazzi, in quei giardini, ci ha vissuto, ci ha pianto e ci ha gioito, per una vita intera? Questa storia ha inizio nel 1948, quando gli inglesi, partendo da Israele, lasciarono due popoli in lotta: l’uno con tutto, l’altro con niente. Suad Amiry, palestinese, racconta quella perdita inestimabile, quella dei muri con dentro le anime, la memoria, i gesti, gli affetti.

Muri a cui oggi, ai vecchi proprietari di sempre, è addirittura proibito avvicinarsi, è preclusa la vista, la memoria delle sensazioni. Come all’architetto Andoni, che vorrebbe tornare nell’abitazione che ha progettato e costruito, il “suo gioiello”, e scopre in tribunale di non poterlo fare in quanto “proprietario assente”; o come a Huda, che preferisce testardamente la cella alla condanna di non poter rientrare nella casa dei genitori. Insieme agli effetti di un conflitto storico che dura da allora, Suad Amiry, con profonda grazia e humour dissacrante, si confronta con un tema universale e potente com’è quello della casa, che finisce per coincidere con la nostra stessa identità, con la nostra stessa, comune, storia.

Secondo Chiara Comito ricorda un po’ il libro che Paola Caridi – che ha incontrato al Festival della Letteratura di Viaggio il 28 settembre 2013 a Roma – ha scritto sulla città di Gerusalemme, sempre edito da Feltrinelli, e che l’autrice sta presentando in questi giorni in diverse città italiane. Anche in Gerusalemme senza Dio leggiamo dello stesso senso di smarrimento e sradicamento sperimentato dagli abitanti arabi della città, che furono costretti, all’indomani della costituzione dello Stato di Israele nel 1948, ad un destino da profughi sulla propria terra.

Le date delle presentazioni

Milano, la Feltrinelli Libri e Musica, Piazza Piemonte 2 – 25 ottobre, 18:30
Firenze, la Feltrinelli, via dei Cerretani 30/32 – 26 ottobre, 17:30
Napoli, la Feltrinelli Libri e Musica, Via Santa Caterina a Chiaia – 31 ottobre, 18:00
Roma , la Feltrinelli Libri e Musica, Galleria Colonna 31/35 – 05 novembre, 18:00

Il libro uscirà in libreria il 23 ottobre al costo di 16 euro, ma online si trova già scontato a 13,60 euro.

sabato 19 ottobre 2013

Novelle per l'integrazione

“Matite colorate in fondo al mare”
Cinzia Capitanio

Una favola dei nostri giorni, probabilmente una storia di fantasia che ha tutto il sapore di una storia vera, di cronaca e di dolore, ma anche di speranza e di tenerezza. Il racconto è pubblicato dalla Collana Crisalidi e farfalle ad indicare quella fase di passaggio dai 10 ai 15 anni nella quale i ragazzi non sono più bambini ma non ancora adulti. E’ quel periodo delicato ed essenziale nella formazione che va dalla pubertà alla prima adolescenza e che oggi più di una volta rappresenta un momento cruciale perché spesso sinonimo di un cambiamento subitaneo, incontrollabile verso una vita che mima quella degli adulti e che non diventerà mai matura. Per questo mi sembra così importante dedicare loro una narrativa di formazione, non perdere il gusto di dialogare e di insegnare attraverso una metafora che facendo leva sulle emozioni è più immediata e più incisiva e non ha il sapore di una storia morale né di una lezione. In fondo è quello che succede ai due protagonisti o meglio a Marco, il bambino italiano di famiglia agiata, un po’ viziato che si trova di punto in bianco catapultato come in uno specchio nella drammaticità della vita di un suo coetaneo.
La storia è narrata dai due bambini e dai loro diari sui quali scrivono con delle matite colorate che finiscono per entrambi in fondo al mare. E’ l’unica cosa che hanno in comune, Marco e Seydou, che compiono un viaggio per mare, sullo stesso mare e che sognano ad un certo punto di essersi perfino incontrati involontariamente. Sono ‘bravi bambini’ che non si risparmiano nello studio, con la passione del calcio, che è un alfabeto comune, che partono con tanto entusiasmo e passione, e ad un certo punto provano, entrambi, paura, delusione, voglia di tornare a casa. E ancora, sono bambini amati dalle proprie famiglie, rispettivamente, con una sorellina e un fratellino, che amano ma per i quali hanno provato gelosia. La similitudine si ferma qui. In Marco c’è l’abitudine al meglio, la realizzazione dei propri desideri come dovuta e quindi la rabbia, il capriccio; in Seydou c’è la gratitudine per la vita, sempre e comunque, il grande rispetto per l’autorevolezza dei proprio genitori. Marco è in crociera con la propria famiglia e gira per il Mediterraneo; Seydou affronta un doloroso viaggio , fuggendo dal villaggio in Costa d’Avorio a causa della guerra, arrivando in Libia da una zia e quindi partendo per l’Italia, con la speranza di un futuro: affronterà un viaggio della disperazione nella stiva di un peschereccio.
Cinzia Capitanio

Il diario farà compagnia ad entrambi, sarà il piacere di raccontare una gioia, la consolazione di un momento di sconforto. A Marco è stato regalato dalla mamma e all’inizio vissuto con il fastidio di un impegno del tipo ‘compiti a casa’ anche in vacanza; a Seydou è arrivato come dono gradito dalla zia e sorpresa ancor più meravigliosa della mamma quando gli consegna delle matite colorate. E’ la prima volta che possiede qualcosa di tutto suo e lo difenderà anche nel momento in cui deve gettarsi in mare perché il peschereccio è arrivato troppo vicino alla costa e i trafficanti di uomini temono di essere scoperti. Al villaggio alla scuola tutto era in comune e nessuno poteva portarsi a casa neppure un gessetto colorato.
All’inizio la distanza tra i due bambini è abissale anche se poi si ritrovano idealmente vicini nel presunto pericolo e in quella paura che fa rifugiare ogni piccolo nelle braccia materne.
Lasciamo i due bambini in vista della terra come sospesi, soprattutto per la vicenda di Seydou. Li ritroviamo nella stessa classe a leggere i propri diari, con l’emozione condivisa, con le risate dei compagni ascoltando i racconti di Marco e le lacrime per quelli di Seydou. E’ un incontro forte che scombussola l’infanzia di Marco, un po’ dorata e poco consapevole e lo avvia ad una conversione. Non ci è dato sapere se il sogno di diventare amici si avvererà né se Marco terrà fede alla sua aspirazione. Mi vengono in mente le parole dello scrittore Luis Borges “Ogni incontro casuale è un appuntamento”. Credo che la vita ci proponga delle occasioni che sta a noi raccogliere e coltivare ed è su questo che si gioca la nostra responsabilità. Non è necessariamente più bravo chi è più sfortunato perché potrebbe perdersi o coltivare la rabbia; è migliore chi si mette in gioco e coltiva i talenti che gli sono stati donati. Mi sembra che la formula di una fiaba vicina al nostro mondo sia una bella iniziativa perché troppo spesso le fiabe non sono credibili e quindi non sono efficaci.
E’ un modo per recuperare quella tradizione orale del raccontare storie ai bambini e ai ragazzi spesso tratte dalla vita, come quelle che il nonno di Seydou gli raccontava e che io stessa ricordo e che sempre più stiamo perdendo. Raccontare storie vuol dire anche educare alle emozioni e all’ascolto che è il primo passo verso la tolleranza.

“Matite colorate in fondo al mare”
Cinzia Capitanio
Illustrazione di Antonio Boffa
Casa Editrice Mammeonline
7,00 euro

venerdì 18 ottobre 2013

Editoriaraba - Alaa Al-Aswani contestato all’Institut du Monde Arabe di Parigi


È successo tutto all’improvviso. Lo scrittore egiziano, ospite qualche giorno fa del prestigioso e algido Institut du Monde Arabe su invito del suo traduttore francese, stava parlando ad un folto pubblico del suo ultimo romanzo, Automobile Club, da poco tradotto in francese, quando ecco che dalle sedie di fronte al palco si leva una voce: “Chiedo scusa dottore, posso parlare?”

Gilles Gauthier, il traduttore, si interrompe e ricorda a chi ha parlato che gli interventi del pubblico sono previsti alla fine dell’incontro perché “Ora si parla di letteratura, solo di letteratura”. L’uomo insiste, così come Gauthier nel porre fine all’interruzione. A quel punto il primo si alza in piedi e tira fuori la foto dell’ex Presidente egiziano Morsi. Altre mani si sollevano, formando il quattro con le dita. Alcuni uomini si alzano, altri indossano in fretta le maglie gialle con la mano nera a quattro dita (simbolo del massacro di Rabaa al-Adaweya del 14 agosto scorso, in cui morirono centinaia di manifestanti pro Morsi, sgombrati con la forza dall’esercito). E nella grande sala parigina si scatena il putiferio: slogan scanditi a voce alta, persone che salgono sulle sedie, Al-Aswani che viene fatto uscire dalla sala e scortato verso la scala d’emergenza.

L’incontro è finito, ma non è finita invece la dimostrazione di quelli che sembrano a tutti gli effetti dei simpatizzanti dei Fratelli Musulmani. “Abbasso i militari, abbasso i militari! Sisi (il generale a capo dello SCAF che ha deposto Morsi) dimettiti”, recitano gli slogan gridati dai manifestanti parigini. Ce l’hanno con Al-Aswani, accusato di sostenere il regime militare e di avere chiamato i Fratelli Musulmani con l’appellativo di “fascisti”.

Lo scontro politico tra militari e islamisti che stringe l’Egitto in una morsa è arrivato anche nelle sale parigine dell’IMA, il tempio della cultura arabo-islamica per tutti gli arabisti e studiosi d’Oltralpe.

C’è chi dice che c’era da aspettarselo, viste le ultime dichiarazioni dello scrittore, non nuovo negli ultimi anni ad uscite piuttosto controverse o poco chiare. In un’intervista a Repubblica pubblicata a luglio così infatti affermava: “L’Islam politico ha provato a realizzare il fascismo e restare al potere per sempre, ma non ci è riuscito”.

Ad agosto su L’Inkiesta apprendevamo che: “Sisi non ha iniziato la rivoluzione, l’esercito invece ha protetto le masse. L’esercito ha difeso il paese. Io ho sempre criticato la giunta militare, mi hanno accusato 12 volte in processi militari anche per distruzione dell’immagine del Paese, ma ora sostengo il governo dell’esercito”.

Affermazioni, non solo queste, che hanno lasciato perplessi molti degli estimatori del grande scrittore, autore del libro forse più venduto nel mondo arabo degli ultimi decenni, Palazzo Yacoubian. Il libro uscì in Egitto nel 2002 e fu il caso letterario di inizio millennio, con le vendite che raggiunsero circa 200 mila copie (fonte: R. Jacquemond).

Fu con Palazzo Yacoubian che l’Occidente riscoprì la narrativa in arabo all’indomani degli attentati dell’undici settembre (in inglese il romanzo uscì nel 2004, mentre in Italia è stato pubblicato da Feltrinelli nel 2006, tradotto da Bianca Longhi) e gridò al “nuovo” Nagib Mahfouz. Fu con Palazzo Yacoubian che vennero messi a nudo molti tabu e che trovarono voce molte delle rivendicazioni che covavano da anni nella società egiziana.

Sempre critico nei confronti dell’ex ra’is Mubarak e co-fondatore del Movimento Kifaya, Al-Aswani è stato in prima linea tra le fila dei manifestanti di piazza Tahrir, fin dall’inizio delle proteste nel 2011. Come ha raccontato in un’intervista a Vincenzo Mattei del Manifesto, uscita a luglio 2011, sono stati proprio i giovani di Tahrir e le manifestazioni a dare nuova linfa al romanzo su cui stava lavorando in quel periodo, Automobile Club, che dovrebbe arrivare in italiano nel 2014.

Ma Alaa Al-Aswani non è l’unico scrittore egiziano ad avere rilasciato dichiarazioni in supporto all’esercito che hanno fatto storcere più di un naso, in Occidente e in Egitto. Anche il giovane autore di Vertigo, Ahmed Mourad, ospite dell’ultimo Festivaletteratura di Mantova, qualche settimana fa aveva detto che in Egitto “si starebbe creando un’unione tra i cittadini, l’esercito e anche la polizia”. Affermazioni che trovano eco nelle parole dello stesso Al-Aswani, come riportato dall’Huffington Post Maghreb.

Per non parlare dell’anziano ma combattivo Sonallah Ibrahim, autore di opere come La commissione, romanzo scritto nel 1981 e fortemente critico nei confronti dei regimi autoritari arabi, il quale in una recente intervista apparsa su Mada Masr aveva confermato il suo appoggio al governo militare e a Sisi, nuovo uomo forte dell’Egitto.

giovedì 17 ottobre 2013

Editoriaraba - “Ti ho amata per la tua voce”, e quell’amore che non può avere fine mai


Lucilla Parisi ha letto e recensito per Editoriaraba il libro “Ti ho amata per la tua voce” di Selim Nassib dedicato alla cosiddetta Callas araba, definizione un po’ ad effetto, ma Umm Kulthum è stata una grande voce e un simbolo del panarabismo. Il libro è interessante e molto delicato (ndr).

di Lucilla Parisi

Lo scrittore libanese Sélim Nassib ci racconta la storia della più nota cantante araba del secolo scorso, Umm Kulthum, e lo fa attraverso le parole di uno dei poeti che contribuì, con i suoi testi, ad accrescere la fama della Stella d’Oriente: Ahmad Rami.

L’artista egiziana, che dominò la scena musicale dagli anni Trenta sino alla sua morte, avvenuta nel 1975, viene descritta in queste pagine come la donna che, grazie alla sua determinazione e lungimiranza, seppe ottenere, non solo dai suoi fedelissimi ammiratori, ma anche dal potere e dai suoi più agguerriti antagonisti, il massimo rispetto e il pieno riconoscimento.

Una grande conquista per Umm, nata in un piccolo villaggio sul delta del Nilo, Tamaya al-Zahariyya e figlia dell’imam della moschea locale. Ancora molto giovane si trasferì al Cairo per ricevere una educazione adeguata: iniziata alle tradizioni della scuola egiziana classica del Novecento, sviluppò il talento musicale più sorprendente del secolo.

“Oltre a interpretare le forme più rigorose della canzone in arabo letterario, la qasida derivata dai modelli dei grandi poeti classici dell’Islam, Umm si è dedicata a generi innovativi più agili, generalmente in arabo colloquiale, come dawr, a carattere semi-improvvisativo; taqtuqa, considerata come la canzone leggera tra le due guerre; e munulug, una sorta di canzone narrativa nella quale la musica aderiva liberamente al significato del testo privilegiando l’effetto drammatico”.
(dalla postfazione al romanzo di Paolo Scarnecchia)

Sélim Nassib ci regala un ritratto umano e poetico di questa Diva, descritta con gli occhi dell’amore che Ahmad Rami nutrì per lei nel corso di una vita. La vicinanza del poeta e della cantante, che seppe interpretare con uno stile originale e del tutto personale i testi del suo autore prediletto, è scandita non solo dai testi delle canzoni d’amore scritte per lei e a lei dedicate, ma anche da una passione profonda che non trovò mai il suo atteso coronamento.

I destini dei due protagonisti procedono paralleli, scortandosi in una sorta di unione professionale e da una corrispondenza amorosa impossibile da realizzare. L’ascesa di Umm tra le stelle del firmamento della canzone araba la obbligherà ad operare delle scelte di vita inconciliabili con il sodalizio esclusivo venutosi a creare con Ahmad Rami.

L’Egitto in cui si diffonde la fama della Stella d’Oriente è quello che vede il passaggio dalla monarchia filo-britannica alla Repubblica; è il Paese della Rivoluzione del 23 luglio, del re Fārūq prima e del colonnello Gamal Abd el-Nasser dopo e del suo progetto panarabista di cui la stessa Umm Kulthum si fece interprete e punto di riferimento per il popolo arabo, anche in seguito alla disfatta della Guerra dei Sei Giorni (1967).

È il tempo del cambiamento anche per la canzone tradizionale che non può sottrarsi alle influenze e alle spinte moderniste provenienti dall’Occidente, ma anche dallo stesso mondo artistico e musicale egiziano. La diffusione dei mezzi di riproduzione e diffusione quali la radio, il cinema e la televisione consentirono alla cantante di raggiungere i Paesi del Vicino Oriente e di adattare il proprio repertorio ad un pubblico sempre più numeroso, che attendeva trepidante i suoi concerti. Divenne così la voce ufficiale di Radio Voce del Cairo, che trasmetteva non solo le sue più note canzoni d’amore, ma anche versi decisamente patriottici.

Nel romanzo di Sélim Nassib ritroviamo i passaggi più salienti di questa straordinaria esistenza, dai primi anni della formazione al funerale memorabile, in cui la bara fu sollevata e fatta passare di mano in mano sulla folla. Il tutto narrato dalle parole del poeta Rami che l’autore ci descrive come irrimediabilmente divorato dall’amore-ossessione per quella donna da cui non riuscirà mai ad allontanarsi definitivamente.
Umm Kulthum in chiave pop
della designer libanese Rana Salam

“Avrei potuto dirti che era la mia gioventù, tanto tempo fa, parlartene come di un amore violento ma superato, uno di quegli amori che si possono finalmente guardare con occhi da nonno. Ma arde come il primo giorno, sempre così nuovo, cosa ci posso fare”.

Oltre a Rami, altri poeti e musicisti si alternarono sulla scena e nella vita professionale di Umm, tra cui il celebre suonatore di liuto Muhammad al-Kasabji e il cantante e compositore  Mohammed Abd el-Wahaab.

Il libro è una testimonianza, seppur romanzata, di un’esistenza grandiosa, quella di una donna che ha segnato la storia di un popolo, lasciando dietro di sé un ricordo personale ed un patrimonio artistico-musicale inestimabili. La narrazione in prima persona, come una sorta di diario postumo dei giorni che furono, rende perfettamente il significato dell’affinità e del sentimento che legò il poeta alla cantante, qui ritratta nella sua grandezza, ma anche nella sua umana fragilità.

“Non chiedevo tanto. Ho cercato di cantare nel miglior modo possibile […]. Ho passato l’esistenza a misurare un lungo, interminabile palcoscenico di legno, che si prolunga di paese in paese. Sono sempre stata dallo stesso lato, in piedi, con la luce dei proiettori negli occhi, a cantare un’unica canzone. Come se avessi vissuto solo un attimo, ma eterno, un’unica nota tenuta a lungo, fino alla fine”.

***
Sélim Nassib è nato nel 1946 a Beirut e vive a Parigi. In Italia sono stati pubblicati, oltre a Ti ho amata per la tua voce, anche L’amante palestinese e la raccolta di racconti Una sera qualsiasi a Beirut, sempre pubblicati dalle Edizioni e/o.

Ti ho amata per la tua voce, di Sélim Nassib – (Settima ristampa, Tascabili Edizioni e/o, marzo 2010). Traduzione dal francese di Barbara Ferri. Titolo originale: Oum (1994).

mercoledì 16 ottobre 2013

Luigi Bernardi, un editore no solo imprenditore

Ozzano Emilia, 16 ottobre 2013
 
Questa mattina lo scrittore, drammaturgo e fondatore della casa editrice Perdisa Pop Luigi Bernardi, è scomparso.
 
"Alberto Perdisa, con tutto lo staff della casa editrice, ricorda Luigi Bernardi, fondatore di Perdisa Pop, di cui ha diretto le collane per lungo tempo.  La scomparsa del grande scrittore e intellettuale, sempre avanti di un passo nell'intuire nuove tendenze e forme letterarie, costituisce una grave perdita per tutta la cultura nazionale", ha dichiarato l'editore" .

martedì 15 ottobre 2013

"Chiamarlo amore non si può"



Il 25 novembre prossimo, giornata contro la violenza nei confronti delle donne, uscirà il libro "Chiamarlo amore non si può", i cui proventi andranno per l'associazione Aidos e per un programma in Burkina Faso dedicato a mamme e ragazzi e alla mutilazione dei genitali femminili.

Ilaria Guidantoni partecipa al libro con il racconto "Chéhérazade non abita qui".

lunedì 14 ottobre 2013

Editoriaraba - La parola al traduttore arabista. Intervista con Ramona Ciucani


Continua la rubrica dedicata alle interviste con i traduttori letterari italiani dall’arabo. L’ospite di oggi è Ramona Ciucani, arabista e traduttrice letteraria (la biografia completa si trova in fondo all’intervista).

Editoriaraba: Come sei diventata traduttrice editoriale dall’arabo: è stata una scelta o una passione che si è trasformata in professione?
Ramona Ciucani: Un incontro fortuito e fortunato. Nel 2005, grazie a un’iniziativa letteraria in provincia di Macerata, ho incontrato la traduttrice Elisabetta Bartuli e sono venuta a conoscenza del Master di traduzione editoriale-letteraria dall’arabo della Scuola Superiore per Mediatori linguistici di Vicenza, che ho frequentato nel 2005/06 e con cui ho la fortuna di collaborare dal 2009.
Avevo sempre avuto l’estro e la curiosità per la traduzione, ma prima del master non avevo mai avuto la possibilità di metterla in pratica o di pensarla come una possibile professione. Lo stimolante confronto con quelle che da insegnanti e guide sono diventate mentori e colleghe ha dato il via a un percorso che ha ridisegnato le mie prospettive lavorative e mi sta offrendo notevoli occasioni di crescita sia nel rapporto individuale “corpo a corpo” con i testi tradotti, sia nello scambio collettivo che si instaura durante le lezioni del Master con gli studenti.
La scelta di fare della traduzione una professione non è automatica, soprattutto in Italia, che non definirei un “paese per traduttori” purtroppo. 
Comunque spero di poter continuare a tradurre perché è un lavoro appassionante dal punto di vista intellettuale. 

Ea: Quali sono secondo te le principali difficoltà nel tradurre dall’arabo in italiano, dal punto di vista linguistico, e quali invece i vantaggi che l’italiano ha come lingua rispetto ad altre lingue europee, come ad esempio l’inglese e il francese?
RC: Linguisticamente l’arabo e l’italiano sono lingue distanti per via della diversa struttura logica, le differenze in fatto di costruzione-ordine della frase, di consecutio temporum, di sistema di coesione (l’arabo tende alla paratassi) si fanno sentire nell’atto del tradurre. 
A mio avviso, altri due aspetti socio-culturali che possono dare filo da torcere sono: i riferimenti al sostrato culturale classico o popolare (es.: citazioni, versi di poesie classiche e modi di dire caduti in disuso), che non sempre il traduttore coglie al volo o riesce a ricreare con la stessa incisività originaria, e, in secondo luogo, la resa dell’oralità. Ultimamente, infatti, l’uso del dialetto è sempre più praticato dagli autori contemporanei, sia nei dialoghi sia nei resoconti orali, per rendere più autentici i personaggi o l’opera.
Eppure credo che l’italiano sia una lingua molto “ospitale” nei confronti dell’arabo, oltre che in fatto di ricchezza lessicale anche nella grande varietà di registri stilistici (dialettale, colloquiale, standard, aulico) che può offrire al traduttore italiano. 

Ea: Hai tradotto due romanzi molto complessi dal punto di vista della lingua, ovvero Il gioco dell’oblio di Muhammed Barrada e Rapsodia irachena di Sinan Antoon: come hai affrontato il lavoro di traduzione e quali sono stati gli ostacoli nel tradurre i giochi linguistici di entrambi i libri in italiano?
RC: Devo ammettere che tradurre Il gioco dell’oblio è stato un battesimo di fuoco, anche se la prosa poetica di Darwish e i giochi di parole di Antoon non sono meno complessi.
Come in tutte le traduzioni, all’inizio cerco di conoscere meglio l’autore e recuperare tutte le notizie e i libri che lo riguardano. Mi piace molto questa fase di “studio-ricerca”: credo che mi sia indispensabile per entrare in sintonia con la poetica dell’autore e dare all’opera un’interpretazione/traduzione che sia in linea con l’universo letterario del suo creatore. Poi c’è un lungo confronto con il testo e il suo stile, infinite riflessioni che man mano si trasformano da linguistiche in estetiche, fino alla fase della revisione finale in cui ho sempre l’impressione di non aver finito. Spesso le parole adatte arrivano appena decido di non rileggere più.
La sfida in Il gioco dell’oblio era data dalla struttura narrativa sperimentale che poteva disorientare o spaventare il lettore, e dall’uso del dialetto marocchino per raccontare la storia del cognato del protagonista. In quel caso, ho scelto di non usare un dialetto italiano perché non volevo trasformare il personaggio in una macchietta e screditarlo agli occhi dei lettori. Ho optato per un registro più colloquiale con alcune esclamazioni gergali, ma senza eccedere. Come lettore, rimarrei straniata se sentissi un personaggio indiano o cinese parlare in barese o in triestino stretto. E di questo mi assumo tutte le responsabilità di traduttore che è libero di scegliere secondo la propria sensibilità. Pratico la grande possibilità che offre l’italiano ai traduttori dall’arabo, come dicevo prima, ossia quella di rendere il dialetto della lingua d’origine attraverso la scelta di un registro più “basso”.
Per quanto riguarda l’ironia e i giochi di parole, sono da sempre uno dei punti più ostici per tutti i traduttori, da ogni lingua. Di solito, cerco di calibrare il guizzo di fantasia con l’efficacia dell’espressione che deve trasmettere l’ironia al lettore d’arrivo (come l’autore la comunica al lettore di partenza). Per non dilungarmi troppo su questo punto, rimando a un intervento più dettagliato al riguardo disponibile nel blog della Zanichelli La parola al traduttore.

Ea: Come valuti il mercato editoriale italiano rispetto alle traduzioni dall’arabo? Secondo te si potrebbe fare di più e se sì, come? E che contributo posso dare i lettori (se possiamo)? 
RC: Negli ultimi dieci anni, l’interesse per la letteratura araba è evidentemente cresciuto. Non solo nel catalogo dei piccoli editori, ma anche in quello dei grand. Sono comparsi in numero sempre più consistente titoli di autori arabi. 
Mi auguro che l’interesse continui ad aumentare, perché credo che la letteratura sia un importantissimo strumento di mediazione culturale e di avvicinamento all’Altro; allo stesso tempo però spero che crescano l’attenzione e la cura verso la selezione dei testi e delle traduzioni dall’arabo, perché la qualità della traduzione fa la differenza. E non mancano prove in questo senso. Da una parte, capita che alcuni testi di autori affermati siano stati sfregiati da traduzioni di scarsa qualità ed è incredibile come gli editori non se ne siano accorti. Dall’altra, altri piccoli editori hanno in catalogo delle vere e proprie gemme, ma non avendo accesso alla distribuzione la fatica di molti rimane invisibile.
C’è un grande lavoro da fare sulla professionalità, su più fronti. Ogni passaggio editoriale è fondamentale: dallo scouting, alla revisione, alla promozione, alla distribuzione. Se uno di questi anelli langue, rischia di penalizzare il risultato finale. 
Sicuramente si potrebbe fare di più e sarà così: infatti il catalogo di opere arabe tradotte in italiano sta raggiungendo la ricchezza e la significatività di quello inglese o francese.
Molti blog, come questo, stanno facendo molto sul fronte della sensibilizzazione e della promozione alla lettura ed è importante. Spero, però, che si ricordino di citare sempre i traduttori e di andare più a fondo nelle recensioni. 
Ai lettori oltre a leggere, non so cosa potremmo chiedere ancora. Mi piacerebbe che la passione per la lettura diventasse contagiosa nel nostro paese. 
Iosif Brodskij ha detto: “Ci sono crimini peggiori del bruciare i libri. Uno di questi è non leggerli”. 

Ea: Durante il festival Philastiniat (Milano, ottobre 2012) avevi  annunciato di stare lavorando alla traduzione di alcune opere di Mahmoud Darwish. Come sono stati scelti i testi da tradurre, visto che la produzione di Darwish è ricchissima e in Italia ne è stata tradotta ancora solo una piccola parte?
RC: Sì, ho appena consegnato due romanzi: Diario della tristezza ordinaria e In presenza d’assenza che faranno parte, insieme a Memoria per l’oblio, della Trilogia palestinese ideata e curata da Elisabetta Bartuli per le Comete della Feltrinelli. 
L’idea è quella, oltre che di omaggiare uno scrittore simbolo della letteratura araba moderna, anche di raccogliere in un unico volume le tre opere in prosa di Mahmud Darwish, in un percorso narrativo che dagli anni ’60 arriva fino al 2006. 
La scelta della prosa è stata motivata dal fatto che due dei testi erano ancora inediti in italiano e si voleva proporre un Darwish prosatore, semi-inedito rispetto al Darwish poeta (apparso in italiano per i tipi di Epoché, S. Marco dei Giustiniani, e in diversi articoli accademici), ma altrettanto magnetico e acuto. 
Effettivamente è un peccato che, al momento, non siano disponibili per i lettori italiani raccolte o antologie poetiche di Darwish. Mi auguro che, in futuro, qualche editore voglia cimentarsi nell’impresa o recuperare quello che ormai è fuori catalogo.

Ea: Nel 2012 lo scrittore iracheno Sinan Antoon ha vinto il National Translation Award (USA) assegnato dalla American Literary Translators Association proprio per la sua traduzione di In presenza dell’assenza di Darwish. Pensi che sarebbe utile istituire anche in Italia un premio per la traduzione letteraria che sia specifico per l’arabo e che si prefigga l’obiettivo di incentivare le traduzioni dall’arabo e ampliare la conoscenza e la diffusione della letteratura araba?
RC: Non so quanto un premio specifico possa incidere nel panorama della traduzione dall’arabo. Il Banipal Prize for Arabic Literary Translation, ad esempio, è arrivato dopo un lungo lavoro di sensibilizzazione e ricerca, e ha dietro una rivista consolidata con decine di collaboratori famosi. 
Un premio assegna e basta, non insegna. Invece, secondo me, c’è ancora molto da fare prima di proporsi un obiettivo così prestigioso. 
In Italia, c’è bisogno di altri passi e di perseguire una visione di lungo termine riguardo alla traduzione editoriale dall’arabo. 
Prima di tutto lo sviluppo della formazione e dell’aggiornamento professionale. Per coltivare figure di qualità (ossia buoni traduttori, buoni revisori dall’arabo – quasi introvabili –, buoni critici) occorrono corsi di specializzazioni dedicati e professionalizzanti che al momento le università italiane non offrono; occorrerebbero workshop e corsi di aggiornamento periodici, borse di studio, incentivi alle traduzioni, riviste specializzate nella pubblicazione di saggi di traduzioni (penso a una specie di “Quaderni di traduzioni” per l’arabo), in modo da promuovere con un raggio più ampio anche una riflessione critica sulla letteratura araba contemporanea. Questo “spazio letterario” che, come una vetrina, proponga assaggi di poesie, racconti, estratti di romanzi in traduzione non c’è ancora in Italia.
D’altro canto, ritengo che bisognerebbe sdoganare la traduzione letteraria dall’arabo da curricula o specializzazioni prettamente arabisti (ancora poco orientati sul contemporaneo) e avvicinarla al versante della teoria e della pratica della traduzione moderne. È un peccato, ad esempio, che nell’attuale filone di studi sulla world literature, i contributi e le connessioni sulla produzione letteraria araba siano ancora scarsi. 
Certamente, la situazione attuale non è delle più promettenti, persino le istituzioni italiane a sostegno della traduzione da altre lingue sono ancora poche e in fase di consolidamento grazie all’impegno diretto e personale di alcuni traduttori e di alcune associazioni. 
Senza incastonarlo in un percorso di sostegno più articolato e in una prospettiva che guardi al futuro (e non solo a riconoscere carriere già affermate), un premio per la traduzione dall’arabo, secondo me, lascerebbe il tempo che trova.

Ea: C’è un autore arabo ancora non tradotto in italiano che secondo te dovremmo tenere d’occhio?
RC: Ce ne sono molti ancora non tradotti, eppure meritevoli, soprattutto in generi (poco allettanti per gli editori italiani) come la poesia, i racconti brevi e il teatro. 
Inoltre, molti “classici” arabi del XX secolo non sono ancora disponibili in italiano.

Ea: L’ultimo libro di uno scrittore arabo tradotto in italiano che hai letto?
RC: L’ultimo libro che ho letto è stato Il cacciatore di larve del sudanese Amir Tag Elsir tradotto da Samuela Pagani per Nottetempo. Adesso, sto leggendo con piacere Vertigo di Ahmad Mourad tradotto da Barbara Teresi per Marsilio.

Ea: Progetti futuri a cui stai lavorando e di cui ci vuoi parlare?
RC: Mi piacerebbe continuare a tradurre i nuovi romanzi degli autori che ho avuto la fortuna di tradurre, ma anche lavorare sulla poesia contemporanea. I progetti sono molti, ma non sempre si riescono a concretizzare. A volte passano anni prima di trovare l’occasione giusta e l’editore “accogliente”, come è stato per Dunyazad di May Telmissany. 

Ea: Che consiglio ti sentiresti di dare ai giovani che vogliono cominciare questo tipo di carriera?
RC: Con gli studenti, durante le lezioni iniziali, riflettiamo sempre su cosa significa essere un traduttore, e nonostante la motivazione, spesso è la pratica quella che parla chiaro e mostra i limiti o le potenzialità. 
In questo momento, onestamente non credo che sia una carriera molto allettante per i giovani arabisti. Richiede molto impegno, passione e oserei dire anche un po’ di talento, ma offre prospettive incerte e scoraggianti a livello economico, a discapito di un grande lavoro personale di formazione continua. 
L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di essere informati sui propri diritti e di agire senza svendersi. Se i sogni e le aspirazioni non sono in vendita, nemmeno lo sforzo e l’impegno dev’esserlo.
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Ramona Ciucani è arabista e traduttrice letteraria. Ha lavorato come insegnante e catalogatrice. Dal 2009 insegna traduzione passiva presso il Master in Traduzione editoriale-letteraria dall’arabo a Vicenza. Ha lavorato come lettrice di romanzi arabi presso la Feltrinelli e ha collaborato con L’ Indice dei libri del mese. 
Ha tradotto alcune poesie di ‘Ali Ja‘afar ‘Allaq e Sinan Antoon e i romanzi Diario della tristezza ordinaria e In presenza d’assenza di Mahmud Darwish (Feltrinelli, 2014), Rapsodia irachena di Sinan Antoon (Feltrinelli, 2010), Dunyazad di May Telmissany (Ev Casa editrice, 2010), Il gioco dell’oblio di Muhammad Barrada (Mesogea, 2009). È socia di STRADE (Sindacato Traduttori Editoriali). La sua email è: ramona.ciucani@gmail.com