venerdì 30 novembre 2012

2012 Crisi del Capitalismo? di Enea Franza

Contro la crisi globale, una nuova etica dell’agire economico
A colloquio con l’Economista Enea Franza

Un saggio di economia, con un excursus storico di pregio, uno stile piano ma non troppo divulgativo, preciso come la didattica ma anche un documento di ricerca autentica. L’autore è animato da spirito critico e con grande umiltà dichiara di lasciare agli economisti di professione analisi e tesi. Questo suo saggio è piuttosto un susseguirsi di domande non retoriche – come fa notare Gianfranco Fini nella prefazione – che cerca altresì, senza mettersi in cattedra, di offrire delle risposte. Il focus sulla crisi attuale che dura dal 2007-2008 e il confronto con molte delle crisi precedenti, è lo spunto per una proposta politica più che strettamente economica, per nulla scontata, né genericamente ottimista o buonista. La democrazia è l’unico strumento in grado di sostenere un’economia sana e l’invito è ‘temperare’ la globalizzazione che ha affidato tutto il potere al capitale, favorendo i più ricchi e aprendo sempre più la forbice tra i diversi livelli sociali. Con il risultato di strangolare la cosiddetta classe media che è l’unica che sostiene una democrazia compatibile con il libero mercato. Forzando un po’ la mano e spingendo l’autore a darci una ricetta di base, emerge la necessità di una ridistribuzione del potere agli stati rendendo il capitale solo uno strumento della politica e non viceversa. Interessanti, a mio parere, soprattutto le considerazioni inerenti l’impatto che l’immigrazione ha sull’economia. Anche su questo argomento l’invito è alla moderazione, fuori da ogni interpretazione ideologica o meglio sentimentalistica (ndr). La preoccupazione di Enea è che un’immigrazione selvaggia alimenti un nuovo schiavismo umano, inaccettabile moralmente, creando oltre tutto danni all’economia.

Come nasce questo nuovo libro?
«Dalla domanda finale che mi ero posto nel saggio precedente, Crack finanziario: “Il capitalismo finirà?”. Avevo necessità di capire le prospettive, dopo che, nella crisi originatasi nel 2007, gli Stati erano intervenuti per coprire i buchi nelle casse delle banche e mi sono chiesto, in caso di mancato sviluppo economico, se sarebbe stato messo sotto scacco il capitalismo stesso».

Stiamo vivendo una crisi congiunturale oppure una crisi sistemica?
«Le crisi economiche sono una costante del capitalismo. Gli studiosi di economia hanno calcolato che, dal 1600 ad oggi, si sono avute più di quaranta crisi internazionali: mediamente una ogni otto anni. Nel mio libro spiego in dettaglio quelle storicamente più rilevanti: dalla crisi dei banchieri fiorentini del 1343, alla “crisi dei tulipani” in Olanda del 1637; dalla “bolla dei mari del sud” del 1720, alle crisi più recenti, come ad esempio quella delle dot-com, generata dall’euforia per la new economy di Internet.
Tra le tante, voglio ricordare in particolare il cosiddetto “Panico dei banchieri”, la prima grande crisi globale del Novecento. Nell’ottobre del 1907 l’indice azionario di Wall Street perse il 37%. In tutta l’America folle di risparmiatori diedero l’assalto agli sportelli delle banche e il sistema del credito rimase paralizzato per mesi. La storia economica spiega così le origini di quel disastro: l’eccesso di investimenti immobiliari, il credito facile e le manipolazioni dell’alta finanza: le stesse cause che sono all’origine della crisi attuale!»

A cosa è dovuta la continua instabilità del sistema capitalistico?
«La teoria economica, nel tentare d’individuare l’origine delle crisi, distingue le crisi che si generano sul lato reale dell’economia da quelle che nascono a livello finanziario per poi espandersi alla produzione e al commercio. Le crisi che hanno origine dalla parte reale dell’economia sono poi distinte in crisi da shock della domanda e crisi da shock dell’offerta. Ma il quadro storico non sarebbe completo se non citassimo anche le cosiddette “crisi atipiche”, come quella del “Lunedì nero” del 1987, la cui responsabilità fu attribuita ai sistemi informatici delle transazioni di Borsa, che erano ancora in fase di prima applicazione: accadde così che vendite inizialmente contenute furono amplificate dagli ordini automatici, alimentando in modo esponenziale una discesa che altrimenti avrebbe potuto essere “fisiologica”».


giovedì 29 novembre 2012

La libreria Azalai

Prima libreria in Italia dedicata al mondo del viaggio e alle culture 'altre'

"Tunisi, taxi di sola andata" alla Libreria Azalai di Milano

Giovedì 29 novembre 2012

Con il collega Christian Elia, inviato di "PeaceReporter"



La top ten dell'arabista


Su editoria araba


Il blog di letteratura araba propone un gioco da inviare a editoriaraba@gmail.com per neofiti ed esperti. La propria classifica dei libri imperdibili. E' divertente ed è uno spunto per un percorso o per un regalo.


Top ten dell’arabista di Rabii El Gamrani


1 – Mohamed Choukri: Il pane nudo (Marocco)

Questo libro costituisce uno spartiacque per il romanzo in Marocco, non tanto per la qualità dell’opera quanto per la sua audacia e il coraggio dell’autore nel mettere in scena il quotidiano degli emarginati. La spigliatezza di Mohamed Choukri nel raccontare la sessualità dei personaggi, la loro miseria e la violenza del mondo dove si muovono l’ha condannato alla censura. Di fatto il libro è rimasto proibito per lunghi anni in Marocco, e quando l’Università americana di Beirut decise di includerlo nel programma di letteratura araba all’inizio degli anni duemila le polemiche non mancarono. Ancora di grande attualità.

 

2 – Kateb Yassine: Kateb Nedjma (Algeria)

La storia personale di Kateb Yassine, la qualità del suo verbo, il suo apporto nell’arricchire la lingua francese e la letteratura “francofona” fanno di lui un esponente di spicco nel panorama della letteratura araba. Nedjma segna la nascita della letteratura magrebina scritta in francese, ed è utilissimo non solo in una chiave puramente letteraria, ma anche sociale ed antropologica.

3 – Abu’l-Qasim Ash-Chabbi: I canti della vita (Tunisia)

Difficile pensare alla poesia araba contemporanea senza evocare il nome di Ash-Chabbi. I suoi versi rivoluzionari a distanza di più di 70 anni sono ancora nei cuori e sulle labbra di tutti gli arabi. La primavera araba ha dato lustro ad un poeta che non è mai stato dimenticato. Un classico/contemporaneo che si inserisce nella grande tradizione poetica araba, quindi è una lettura che permette di capire sia il passato remoto e recente della poesia araba, ma anche il suo presente.

4 – Ibrahim Al Koni: La patria delle visione celesti ed altri racconti (Libia)

Di gran lunga Al Koni è il più grande romanziere libico ancora in vita. La patria delle visioni celesti è un romanzo mistico e poetico che racconta il deserto e la sua purezza. La scrittura di Al Koni è pacata e dolce, ma nasconde tante insidie. Il lettore deve sempre stare allerta, ogni frase è una sfida, un puzzle che inserito nell’insieme del testo e dell’intento del suo autore forma uno strepitoso mosaico in cui il protagonista assoluto è la lingua e la vastità del deserto, elementi nei quali noi appariamo molto piccoli. Sono ossessionato dal deserto, quindi è una lettura che non posso non consigliare.


5 – Gamal al-Ghitani : Al-Zayni Barakat (Egitto)

Leggere Al-Ghitani equivale a leggere molti scrittori arabi: la sua formazione da uomo e da scrittore deve molto al premio Nobel Naghib Mahfuz, quindi c’è anche un po’ di quest’ultimo nella narrativa di Al Ghitani; lui a sua volta ha influenzato, e continua a farlo, intere generazioni di scrittori arabi. Al-Zayni Barakat è il suo capolavoro, dove inventa un modo nuovo e innovativo di rileggere la storia remota mettendola al servizio della contemporaneità. Con un colpo da maestro lo scrittore egiziano mischia la ricca tradizione folcloristica dell’Egitto, la mitologia egizia e la storia medioevale egiziana per perfezionare un romanzo di denuncia politica e sociale. Una tappa fondamentale nella letteratura araba.

 

6 – Tayeb Salih: La stagione della migrazione a Nord (Sudan)

. Il Sudan, quasi a margine del mondo arabo, ha dato i natali ad uno dei più grandi scrittori arabi. Questo è un romanzo che ha fatto epoca stato fra i primi romanzi arabi, ed assolutamente il più importante della sua epoca, ad aver indagato il rapporto conflittuale e sofferto fra l’Oriente e l’Occidente, quindi è una narrazione che si pone verso l’esterno, senza tuttavia trascurare, tutt’altro, il fronte interno. La descrizione dell’Inghilterra si alterna alla descrizione del Sudan rurale con il suo tessuto sociale ed umano. Ed è tutt’ora, a distanza di quasi quarant’anni dalla sua uscita, uno dei testi più letti e tradotti. Salih ha scritto diversi altri romanzi, ma questo rimane il suo capolavoro in assoluto.

7 – Ghassan Kanafani: Uomini sotto il sole (Palestina)

Sforzatevi di leggerlo in arabo, nessuna traduzione gli ha mai reso giustizia. Una bellissima e tristissima epopea che racconta il dramma palestinese attraverso la tematica della migrazione, quindi è doppiamente attuale. Un romanzo fondamentale nella mia formazione da uomo e da appassionato di letteratura.


8 – Mahmud Darwish: Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine (Palestina)

Un nome fondamentalee conditio sine qua non per il mondo arabo.  

 

9 - Nizar Qabbani: Il fiammifero è in mano mia e le vostre piccole nazioni sono di carta (Siria)

E’  il poeta dell’amore per eccellenza. Colui che ha ispirato i corteggiamenti più dolci e convincenti di intere generazioni di uomini arabi. La sua poesia è pura bellezza. Ha scritto sull’amore delle donne e della patria, omaggiando la prima e denunciando la seconda, ma la sensualità dei suoi versi non è mai mancata sia in pace che in “guerra”.


10 – Hoda Barakat: L’uomo che arava le acque (Libano)

L’unica donna della lista. Un romanzo spettacolare, caotico, metaforico che racconta il Libano con le sue disgrazie e bellezze, che racconta l’Uomo in tutti i suoi stati d’animo. Assolutamente da leggere.

lunedì 26 novembre 2012

Editoriaraba e l'incontro inaspettato con Sonallah Ibrahim


Uno scrittore egiziano non conosciuto dai più


di Antonello Capogrossi *


Il blog di letteratura araba ci propone lo scrittore egiziano Sonallah Ibrahim, per me sconosciuto, che è venuto di recente in Italia per partecipare alla Settimana della Lingua araba e della cultura egiziana di recente. Letteratura, libertà personale e coraggio delle proprie idee si fondono indissolubilmente nella vita e nelle opere di questo uomo, che cela dietro la proprio piccola statura, un coraggio e uno spirito da grande eroe.

"Non conoscevo nulla di lui, se non qualche piccola reminiscenza dell’esame di letteratura araba, ci racconta l’autore di questo articolo. Poche informazioni, due soli romanzi disponibili in italiano, la prigione, la censura, il comunismo", ci racconta l'autore. Racconta della sua vita, delle sue opere, della prigione, dell’Egitto, della rivoluzione, di Nasser, di Sadat, della donna e tanto altro.
Perché scrivere di questo incontro? Sonallah Ibrahim non è venuto a Roma per raccogliere lodi, applausi e firmare autografi, è venuto per seminare. Ed è un peccato, abbiamo tutti perso una grande occasione, che eravamo così numericamente ridotti. Ma spero che quel seme che Sonallah Ibrahim ha lasciato in me, possa raggiungere qualcun altro.

La commissione e Warda sono le opere tradotte in italiano.

Sonallah Ibrahim è stato ospite della lezione di letteratura araba, presso la Caserma Sani (sede del dipartimento di Studi Orientali) e il collega è rimasto colpito dalla sua forza comunicativa. “Anche qui pochi presenti, una dozzina di studenti di cui solo tre o quattro avevano letto i suoi libri, qualche curioso, qualche appassionato di letteratura araba. Sonallah Ibrahim, sorridente, non si è sottratto a nessuna domanda, rispondendo con generosità ed entusiasmo. Ha detto di sentirsi ringiovanito in mezzo a tanti ragazzi e alla fine di tutto, era lui che ci applaudiva.
Parlando della sua vita ha raccontato di come sia stato condannato al carcere nel ’59 per essere stato membro del partito comunista. Si era rifugiato per un mese in un piccolo villaggio ma poi era stato catturato. Ha raccontato di come in prigione la scrittura fosse l’unica vera libertà e di come si fosse opposto alle torture e alle umiliazioni, non con la forza fisica, di cui naturalmente non dispone, ma con la forza delle idee e della parola. Ha sottolineato così la grandiosità della sua unica arma a disposizione, qualcosa che sarà un denominatore comune in tutta la sua vita.
Saranno i suoi romanzi, scandalosi, censurati, sarà il suo linguaggio crudo, a volte anche sarcastico, a scagliarsi contro le logiche del potere, i soprusi e le ingiustizie sociali. Uno scrittore che nelle sue opere rievoca aspetti della sua vita, afferma i suoi ideali e libera i suoi sentimenti, tutto perfettamente collegato (fedele ai principi di realismo di Hemingway cui fa riferimento) in un filo conduttore per cui, dietro ogni frase e dentro ogni opera, c’è un pezzo di vita di Sonallah Ibrahim, che si impara a conoscere. Così come nelle sue parole rileggevo pagine dei suoi libri, nei suoi libri continuo a vedere immagini della sua vita.
È Sonallah Ibrahim che nella Commissione, all’interno di un processo di impostazione kafkiana, non cede al potere: non racconterà quello che vogliono loro e non smetterà di raccontare la verità, di far scorrere libera la sua penna sui fogli bianchi, a qualunque costo. Ci ha raccontato di come negli anni il regime abbia provato a censurarlo, attraverso l’ipocrisia tipica dei tiranni arabi. Una volta il ministro della cultura gli offrì una borsa di studio per un anno (con il compenso economico più alto) che il governo egiziano destinava agli intellettuali senza lavoro o in difficoltà economiche. Al Ministero si erano preoccupati delle condizioni di vita di Sonallah Ibrahim, che decise di licenziarsi da giornalista per dedicarsi completamente alla letteratura. In realtà, come lo scrittore ci ha spiegato, dietro questo tentativo benevolo si celava l’intento di renderlo uno schiavo, uno dei tanti, di un sistema per cui tutti erano in debito con il regime. Se avesse accettato quei soldi non sarebbe stato più libero, di scrivere, di denunciare, di sferrare attacchi frontali al potere.
Ma a questo proposito l’evento più emblematico è avvenuto senza dubbio quando, qualche anno fa, sotto il governo di Mubarak, gli era stato assegnato un prestigioso premio letterario. In una sala del Teatro dell’Opera del Cairo gremita, con le autorità egiziane in prima fila, il ministro aveva annunciato il nome del vincitore: Sonallah Ibrahim. Nessuno aveva fiatato, nessuno si era alzato a ritirare il premio, tantomeno lo stesso Sonallah Ibrahim, che era rimasto al suo posto tra lo sgomento dei presenti e l’irritazione delle autorità. Tra i suoi amici, tra gli intellettuali, in molti avevano pensato che lo avrebbero arrestato seduta stante; il regime, se lo avesse fatto, avrebbe apertamente ammesso la sconfitta, avrebbe ammesso che Sonallah Ibrahim raccontava e racconta ancora (ormai conosciuto anche fuori dall’Egitto, poiché numerose traduzioni sono state fatte nella maggior parte delle lingue europee) la pura verità. Lo avevano lasciato al suo posto, delusi per non aver potuto assoggettare la libertà artistica dello scrittore al volere e al sostegno della loro politica, ma in un certo senso consapevoli del fatto che le parole non avrebbero mai scatenato nulla, che il potere nelle loro mani, sarebbe stato sempre un’arma così potente da far tacere chiunque.
La storia non è andata così, la primavera araba ha restituito vitalità ed energia ad una società egiziana che sembrava non esistere, e tutto è partito da una parola: hurriyah che ha saputo diffondersi tra i giovani, attraverso le nuove forme di comunicazione dei social network.
Una parola che è stata l’inno di battaglia di tante ragazze, che hanno affiancato i loro compagni uomini verso la strada della libertà e della democrazia. Eroine del nuovo millennio, con jeans e cellulari, eroine come Warda, la protagonista femminile dell’altro romanzo tradotto in italiano.
Sonallah Ibrahim ci ha spiegato la sua scelta di un personaggio femminile e dell’importanza delle donne nella primavera araba. Warda è una ragazza intelligente, istruita, contraria alle convenzioni sociali e capace di ribellarsi, di non essere un oggetto per l’universo maschile;  ha detto, le ricordava sua madre, una donna molto giovane che suo padre, molto più anziano di lei sposò come seconda moglie. Era una donna istruita, che non accettò mai lo status di moglie, ma che seppe scegliere per se stessa una vita vera. Così come oggi fanno le ragazze egiziane. Donne egiziane che non potranno più essere relegate ad un ruolo subalterno all’autorità maschile, che nessuna volontà politica e religiosa potrà più tenere fuori dalla vita pubblica. Sono state le donne le protagoniste di questa primavera araba, l’arma in più del popolo che si ribella, che mai aveva partecipato alle manifestazioni nel corso della storia. E non è un caso che stavolta le rivolte abbiano avuto successo. Questa volta è stata tutta la società a scendere in piazza, tutti, uomini e donne, fianco a fianco, perché, come Sonallah Ibrahim ha ribadito, gli uomini da soli non bastano, lo hanno dimostrato nel corso della storia, sono deboli, privi di coraggio e solo insieme alle donne possono essere degli uomini veri. Lo ha detto con forza Sonallah Ibrahim, lo ha raccontato attraverso la storia di sua madre, una donna coraggiosa, e lo ha scritto in Warda e in Dat, le sue opere.
Sono andato via da quell’incontro con molte emozioni racchiuse dentro di me, con un libro in arabo tra le mani, con il suo sguardo verso di me e la sensazione di aver fatto uno di quegli incontri, che una volta finiti, ti senti diverso.
Sonallah Ibrahim è uno scrittore sorprendente che merita di essere conosciuto anche in Italia, perché l’universalità dei temi che affronta non ha confini, perché il suo desiderio di libertà e verità è qualcosa che riguarda ogni popolo, ogni società ed ogni singolo uomo in ogni sua piccola azione quotidiana”.

Grazie per averci aperto questa porta verso un mondo nuovo.

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*Iscritto al corso di Lingue e civiltà orientali all’Università La Sapienza di Roma, ha studiato arabo come prima lingua orientale arabo.

domenica 25 novembre 2012

“Il Temporary shop” di Massimo Costa e Ada Cattaneo

Un saggio su un fenomeno articolato, molto recente e di grande successo che in Italia sta trovando terreno fertile e mettendo buone radici, con epicentro a Milano. Il testo di Massimo Costa e Ada Cattaneo, con la presentazione di Luca Pellegrini, complesso e con ampi riferimenti culturali di natura filosofica e sociologica, cerca di cogliere in modo articolato un fenomeno tanto citato quanto raramente compreso nella sua poliedricità. Il libro non ha l‟approccio da manuale sebbene si presenti con una struttura sistematica e sistemica che, per chi è abituato a leggere filosofia, ne ricorda l'anima. Una lettura che almeno nella prima parte è opportuno seguire passo dopo passo, mentre nella seconda la ripresa dei concetti, una maggior volgarizzazione, coadiuvata da immagini e case history lasciano spazio a qualche salto, anche in rapporto ai propri interessi.
L'analisi parte dalla classificazione del tempo secondo modelli di vita e parametri di valori che diventa la griglia di interpretazione dell'evoluzione del modello di commercio e quindi di comunicazione tra produttore, distributore e consumatore, cliente; per analizzare il fenomeno attuale della vendita a tempo dove la durata limitata nel tempo rappresenta la caratteristica centrale dell'evoluzione della domanda e quindi della risposta ai consumi; l'indagine sulle diverse tipologie, molto minuziosa; quindi un'ultima parte dedicata ad alcuni casi di successo e di sperimentazione, come Nivea a Milano; e infine all'Associazione Assotemporary (con sede nel capoluogo lombardo) che si presenta come un fronte sindacale per assistere oltre che interpretare questo nuovo fenomeno, nato in modo prorompente in Italia e soprattutto nella città meneghina sull'onda della forte presenza ed evoluzione del mondo della moda.
Direi che ci possono essere almeno tre letture a mio parere, rispettivamente, una più filosofica che è data dall'interpretazione dell'esistenza di diversi modelli di società e un'evoluzione che non esclude la sopravvivenza dei modelli precedenti, dove l'uomo è quello che compra e come lo compra, soprattutto come acquista non solo prodotti e servizi ma anche esperienza che si realizzano nei punti vendita in una società per certi aspetti sempre più immateriale. Inoltre c'è una lettura socio- economica dell'evoluzione dei bisogni, consumi e quindi produzione e distribuzione; ed una lettura più immediata e più tecnica dei punti vendita delle nostre città (perché ad oggi il fenomeno è soprattutto urbano, anzi metropolitano e di target elevato anche nello stile underground che però non è certo mass market in termini di approccio), di stili di vita, in special modo giovane.
Infine c'è uno spunto per chi volesse trovare delle risposte dal punto di vista tecnico, normativo, sindacale e di organizzazione pratica dei punti vendita “temporanei”, dalla parte del potenziale ideatore e/o gestore.
Comme des Garçons, celebre marchio parigino di forte tendenza, neo romantica, fintamente trasgressivo e pret à porter, è stato pioniere nell'idea semplice – partita appunto dal mondo della moda – di rivolgersi a potenziali clienti in un luogo e per un tempo limitato, seguendo l'incostanza e la mutevolezza dei tempi. Possono essere pop-up o guerrilla store, nella loro versione più estrema, che durano qualche ora o un giorno e con uno stile underground di solito – in quest'ultimo caso - associati a campagne provocatorie, fino a diventare luoghi attrezzati permanenti per ospitare punti vendita ed eventi, allestimenti temporanei, fenomeno quest'ultimo tutto italiano.
L'idea originaria è antica perché da sempre esistono forme itineranti di commercio dai venditori ambulanti fino ai camioncini attrezzati ma l'elemento di innovazione è che la centralità è rappresentata prima che dalla vendita dall‟evento, dalla spettacolarizzazione e dell'aspetto esperienziale e interattivo con il consumatore che è una tendenza della modernità più recente. Così molte iniziative tradizionali, la presentazione di un libro, l‟anteprima di un prodotto, divengono una performance.

martedì 20 novembre 2012

"Un’ombra fuggitiva di piacere" di Costantino Kavafis

a cura di Guido Ceronetti

Il poeta alessandrino moderno, l’erede dei lirici greci, occupa una singolare posizione nel panorama della poesia del Novecento e forse meriterebbe una centralità maggiore. La sua produzione complessiva – 154 componimenti – ha un andamento musicalmente colloquiale con versi, sciolti, talora ‘spezzati’ che evocano un mondo antico e mitologico con un riecheggiare malinconico, raffinato, mai accademico. I temi sono quelli dei poeti lirici classici ma l’eloquio è vicino alla lingua parlata dell’oggi. E’ la fugacità della bellezza, la paura di invecchiare senza aver goduto appieno i frutti della giovinezza, la malinconia di una Grecia conosciuta tardi, per il poeta, nato ad Alessandria nel 1863 (ultimo di nove figli da genitori greci originari di Istanbul e morto nel 1933).
Forte la presenza della sensualità ora violenta, ora struggente, ma sempre un po’ dolorosa e mai catturata del tutto come nei versi che dicono:
"Un intelletto in preda a una febbrile
Dissolutezza, il baciarsi
Rappreso nella bocca.
Come di spasmi che la brama stritola…
Con svagatezza, tanto
Ha calcolato i rischi.
Di neri scandali simili vite
Sono sull’orlo
Sempre"

Il destino evidenzia la caducità della vita e si annuncia come una condanna come nel componimento
“Un vecchio” dove affiora molto del suo sentire.

"E pensa, nella triste vecchiezza, avvilita,
a quanto poco godé la vita
quando aveva bellezza, facondia e vigoria…
Riflette. A come la Saggezza l’ha beffato.
Se n’era in tutto (che pazzia!) fidato:
‘Domani. Hai tanto tempo – la bugiarda diceva.
Gioie sacrificate…ogni slancio represso…
Ricorda. Ogni occasione persa, adesso
Suona come uno scherno".

Sono versi che spingono a chiedersi perché la poesia sia così trascurata, nella sua essenzialità che dice modernità e nella sua capacità di offrire interpretazioni e sentire diversi, in quella libertà che l’oggi reclama ma che poi teme.

"Sono caduta dalle scale. I luoghi e gli attori della violenza di genere", Venerdì 23 novembre, Napoli


Nella giornata dedicata alla violenza sulle donne

La Fondazione Valenzi

Venerdì, 23 novembre alle ore 11.00 presso Palazzo San Giacomo a Napoli, nella sala Pignatiello presentazione di "Sono caduta dalle scale. I luoghi e gli attori della violenza di genere"

L'incontro è organizzato con l'Assessorato alle pari opportunità del Comune di Napoli e il Dottorato di Studi di genere dell'Università Federico II.

Il volume, a cura di Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli, inquadra a livello storico e sociale la violenza di genere in famiglia e presenta i risultati di una ricerca con medici, parroci e operatori dei servizi. La violenza domestica è invisibile fintanto che non diventa femminicidio.

Il libro cerca di dirci come dare voce alle donne e impedire il massacro in "nome dell'amore".

lunedì 19 novembre 2012

Da editoriaraba: In italiano per la prima volta l'opera di al-Achaari, "L'arco e la farfalla"


Tra la narrativa araba proposta quest’anno in italiano spicca "L’arco e la farfalla" del politico marocchino Mohammed Al Achaari, con la sua fascetta promozionale: 'Miglior romanzo in lingua araba del 2011, vincitore dell’Arabic Booker Prize'.
Abbiamo gia' ripreso su queste pagine l'articolo del blog Editoriaraba all'uscita del libro che oggi si interroga sui criteri di scelta dei libri da tradurre dall'arabo all'italiano.
Sul retro di copertina si parla di primavera araba e terrorismo. 

Riportiamo l'articolo di Giacomo Longhi*


'La quarta di copertina mi annuncia che andrò a leggere un romanzo su “un Marocco in grande fermento, sempre più diviso fra tradizione e modernità”. L’autore è stato in carcere durante gli anni di piombo e recentemente Ministro della Cultura per il suo paese. Insomma, conoscendo i miei gusti non nutro le migliori aspettative, ma cerco di essere un lettore onesto e comincio la lettura con uno stato d’animo il più neutro possibile. 
Ma quando termino il romanzo le mie perplessità rimangono.
La vicenda prende avvio da una crisi improvvisa, che il protagonista, Youssef, racconta in prima persona. La perdita dei sensi, a cominciare dall'altro, come reazione a una notizia sconvolgente e inaspettata. Un anonimo biglietto lo informa del martirio del figlio Yassine in Afghanistan. Un punto di non ritorno per Youssef, che da quel momento in poi riconsidererà la propria vita sotto tutt’altra luce. E attraverso le sue riflessioni si susseguono le storie dei suoi genitori, le donne e gli amici della borghesia progressista, sullo sfondo di un Marocco sempre più soffocato da una crescita selvaggia e dalla minaccia di attentati terroristici.
Il titolo fa riferimento a due opere architettoniche. L’arco, progettato da Yassine, che avrebbe dovuto unire alla foce le due sponde del Bou Regreg, Rabat e Salé, la modernità e la tradizione. Non verrà mai realizzato. La “farfalla”, invece, è un mastodontico edificio che l’architetto Ahmad Majd pianifica e costruisce a Marrakech e che evidenzia bene lo schiacciante trionfo dei nuovi ricchi sulle più giovani e utopistiche aspirazioni del paese.
Un’enfasi insistente è posta sui temi d’attualità, mentre il romanzo oscilla tra il sentimentale e il noir. La scrittura è elegante e fluente, ottima la traduzione, ma la narrazione presenta diversi intoppi. Come per esempio il cameo con Saramago, quasi uno spento manichino, o il lungo capitolo sulla visita guidata a Volubilis col padre del protagonista, venti pagine di sola descrizione. Le perplessità più grandi seguitano sullo sviluppo di alcuni temi, che mi è parso superficiale se non addirittura fuorviante.
Trovo infatti riproposti inutili cliché, come quello dell’incolmabile distanza tra la cultura europea e quella marocchina, facilmente leggibile nell’episodio del suicidio di Diotima, la madre tedesca del protagonista, che tenta invano di integrarsi in un ambiente a lei straniero.
O il ritratto di una gioventù, quella marocchina, quanto mai incapace e disorientata, che pare composta da soli ingenui e velleitari. Esemplare è la storia dei figli adottivi di Ibrahim Al Khayyati, l’amico omosessuale di Youssef, che dopo il suicidio del compagno ne sposa la moglie per mettere a tacere le dicerie sul suo conto (sic!). Li troviamo completamente assorbiti dalla passione per la musica hard rock e black metal, cosa che li coinvolge in un’inchiesta sui “servi di Satana”. Loro malgrado, perché non sanno di cosa parlano i testi inglesi delle canzoni. Uno dei due, Osam, scomparirà misteriosamente. Lo ritroveremo nell’elementare epilogo, nei panni (pakistani) di un pericoloso terrorista. 
Ho pensato a "Palazzo Yacoubian" di 'ala al-Aswani. Anche in questo romanzo un giovane ragazzo si unisce a un gruppo jihadista, ma seguiamo dall’inizio alla fine il desolante percorso che lo porta a questa scelta, la sua realtà non ci appare più incomprensibile. In L’arco e la farfalla non si capisce come mai si arrivi a tutto ciò. Le ragioni per cui questi giovani scelgono la via del jihad restano inspiegate, oscure, resta la paura.
Non basta aggiungere tanti ingredienti per realizzare un buon romanzo. Non basta una bella scrittura. Mi interrogo sul valore di un libro da cui emergono vistosi stereotipi.
Mi chiedo infine cosa abbia determinato la pubblicazione del romanzo. Il fatto che abbia ricevuto un importante premio letterario? O i contenuti considerati appetibili per il pubblico italiano? Le aspettative si possono anche deludere con romanzi come questo. Forse ha ragione il critico egiziano Ibrahim Farghali, la qualità letteraria non determina ancora le scelte editoriali sulla letteratura araba, pare invece che ci si ostini a chiederle di spiegare il mondo da cui proviene.
Sono un buon promemoria le parole di Mahmud Al Wardani: Perché leggiamo Moravia e ci piace? Perché leggiamo Buzzati e ci piace? Non li leggiamo per essere sicuri di avere l’idea giusta dell’Italia, per essere sicuri di qualcosa, li leggiamo perché ci piacciono e ci dicono qualcosa, anche dell’Italia, sì, ma prima di tutto ci interessa quello che questi scrittori vogliono comunicare a tutti noi come esseri umani.

* Studente di Lingue e istituzioni economiche e giuridiche dell’Asia e dell’Africa mediterranea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. 

venerdì 16 novembre 2012

"Poesie dell’Africa" di Lépold Sédar Senghor

L’Africa è l’anima, gli occhi attraverso i quali vede e sente Lépold Senghor, considerato il maggior poeta africano, creatore della négritude, essenza dell’uomo africano;, primo presidente del Senegal indipendente dai francesi dal 1960, lui cristiano in un paese a prevalenza musulmana.
Senza aver sfogliato il libro fino alla fine e senza aver letto neppure il titolo del manifesto, La négritude, le parole, le metafore, indirizzavano l’animo verso un nucleo originario legato alla terra africana, al di là della geografia e della storia; qualcosa che è oltre la cultura, per attingere direttamente alla matrice ancestrale.
Di questi componimenti per certi versi vicino alla prosa, almeno stando alle regole metriche e del gusto occidentale della scrittura poetica, mi ha colpito il loro carattere discorsivo, eppure prezioso con la ricerca della parola adeguata e ponderata, ogni volta ‘giusta’, così quotidiana pur essendo indicibile ai più: rivelatrice, dietro l’abito dell’emozione genuina e del contesto africano e francese, specchio della biografica dell’autore, di una cultura profonda, non semplicemente di una fine sensibilità, che attinge a piene mani dalla classicità senza citarla. Non è facile la lettura al primo approccio: si può restare perplessi, avvertire la lontananza della cultura di provenienza; poi improvvisamente, si rompe il ghiaccio e si entra nell’empatia di un nucleo originario e comune, antecedente le divisioni e le partizioni nazionali.
Ci vuole un po’ di tempo, disponibilità, umiltà per abbandonarsi ad un mood che certamente non ci è consueto nello stile. Oltrepassando l’abito però, si coglie invece l’universalità del sentimento e dell’emozione, fluidi e perfino ingenui.
Tra i temi il mare, a me molto caro, mi appare come uno dei fili conduttori e ancora il sole, nell’incandescenza del tramonto – prima che sia buio – con quell’aurea di malinconia e irrequietezza che lascia nell’avvicinarsi della notte. L’uomo appare tutt’uno con la natura nel suo sentire, soprattutto un sentire d’amore. L’amore non ci appare un sentimento generico, quanto il legame con un “tu”, destinatario della maggior parte delle poesie che si rivelano un dialogo consolatorio. L’altro è la misura della propria vita, la spia dell’accensione, pur nel dolore della separazione. La poesia è in certo modo consolatrice, con le lettere a tenere compagnia e viva la corrispondenza degli animi. Si avverte con grande naturalezza la compresenza di due culture imprescindibili per il poeta che più volte menziona la figura del ‘poeta pastore’.
Struggenti molti versi, quanto lucida l’analisi del poeta filosofo ne’ La negritudine nella quale dice che “qualcuno mi ha rimproverato di aver definito l’emozione come negra e la ragione come ellenica, cioè europea. Ed io mantengo fermamente questa mia tesi”. Nello specifico la ragione africana è intuitiva e l’arte esplicativa, partecipa al vitalismo degli oggetti; non si limita a riprodurli, tenendoli a distanza, e guardandoli. La conoscenza della tradizione greca è evidente come nella contrapposizione tra l’ontologia unitaria nera e la visione duale occidentale. L’uomo nero, secondo Senghor, sente la natura, sentendosi parte di essa e attraverso le cose si sente vicino a Dio; mentre l’uomo occidentale studia gli oggetti e li gestisce. Forse alcuni aspetti sarebbero da recuperare, considerando che il nostro autore è riuscito a sintetizzare il vitalismo africano nel cristianesimo.


Poesie dell’Africa
di Lépold Sédar Senghor
Bandecchi&Vivaldi EDITORI
6,90 euro

Da editoriaraba: L’arte del romanzo nel verbo di Abd al-Rahman Munif (parte 2)


di Rabii El Gamrani

Ed ora: “Gli alberi e l’assassinio di Marzuq"

Non ti commuovere! Stai ascoltando quello che ti dico? Non ti commuovere! E questi ultimi momenti che ti potrebbero lasciare un ricordo o suscitare un’emozione, lasciali perdere. Hai superato tutti gli ostacoli da solo non hai bisogno adesso di vedere negli occhi altrui un compatimento rassegnato. Loro non si curano certo di te, e anche se ti dicessero parole di commiserazione, è a loro stessi che penserebbero in realtà. Gettati tutto alle spalle e, se ci riesci, non guardarti mai indietro.

Così comincia il viaggio lungo e tortuoso di Mansùr Abd-Salàm, così inizia Gli alberi e l’assassinio di Marzuq, ma è un inizio fuorviante, perché nella prima parte del romanzo Mansùr Abd-Salàm serve solo da spalla alla narrazione di un altro personaggio che per puro caso si trova a viaggiare sullo stesso treno. 
E’ un viaggio breve e al tempo stesso lungo quanto basta per “ascoltare” le récit de vie di Elyas Nakhla, personaggio sisifeo che in un continuo e infinito inizio è condannato, come l’eroe greco, a sollevare il suo destino dagli inferi alla cima del monte per vederlo rotolare di nuovo verso il basso. La sua è un’odissea straordinaria che trasporta il lettore fra una moltitudine di paesaggi, di mestieri e di sensazioni contraddittorie.
Tutto prende inizio nel villaggio di Tayyiba, dove Elyas accudisce i suoi amati alberi che presto perderà per ritrovarsi condannato ad una maledetta peregrinazione e perfino quando trova l’amore, grazie al suo compagno di viaggio, l’asinello Sultan, il destino gli è avverso ed è costretto ad iniziare daccapo. Vagabondaggio, fatica, morte e un impossibile quanto legittimo desiderio di una vita normale e dignitosa, sono questi i dilemmi che Elyas affronta, ed è lui stesso a dire: “ Vivere…già il solo vivere, amico mio è un atto di coraggio, sì la vita è un atto di eroismo, ma senza strepiti. Un piccolo atto eroico che l’uomo compie quotidianamente per poter restare sincero e onesto”. 
Elyas è un antieroe irrequieto ed iracondo che, mentre sorseggia l’Arak, una bevanda diffusa in Mesopotamia, insieme all’estemporaneo compagno di viaggio, distilla goccia a goccia il racconto di una vita segnata dal dolore e attorniata da un alone di romanticismo che porta il lettore ad adottarlo, ad appassionarsi alle sue vicissitudini, a sentire il dolore di quella ferita che si è inferto quando ha perso l’amore della sua vita. Viene perfino voglia di difenderlo contro i malvagi doganieri che lo aspettano alla stazione dove le strade di Elyas e Mansùr si divideranno. 
Munif, con la maestria di un grande narratore, crea un universo espressivo e psicologico che coagula brillantemente l’imperativo di raccontare le peripezie di un uomo normale all’indagine della psiche di quel cristiano arabo che è condannato ad un eterno conflitto con se stesso e con il mondo che lo circonda. Nella sua evocazione, Elyas esprime perfettamente quella infelicità che lo accumuna a Mansùr Abd-Salam, perciò, sollecitato da quest’ultimo, la sua memoria viaggia verso quella che è stata la sua vita. Ed è un’ evocazione che assume il gusto di una voluttà masochista, Elyas non fugge al suo passato continuando tuttavia ad appartenere al suo presente.
Presente e passato che invece Mansùr Abd-Salam cerca vanamente di rinnegare, come rinnegherà Elyas stesso quando quest’ultimo scende nell’ultima stazione prima di varcare i confini. 
Lui varcherà quei maledetti confini fuggendo dal suo paese dove le porte di ogni possibilità di vita dignitosa gli sono state sbarrate. Egli è l’archetipo dell’intellettuale e dissidente arabo in fuga da un regime che si sente minacciato da chiunque abbia un’idea diversa di intendere la vita. Mansùr è un professore di storia che è stato cacciato dall’università per via delle sue idee politiche, e dopo anni di attesa e di disoccupazione fugge verso il paese confinante per lavorare come interprete per conto di un’equipe di archeologi francesi. Contrariamente ad Elyas che ha avuto almeno la consolazione di essere ascoltato, Mansùr dovrà raccontare la sua storia senza una spalla che lo inciti a tessere i fili del racconto, e la sua non sarà solo una narrazione orale. 
Davanti all’impossibilità di ogni riconciliazione con il suo passato travagliato, fatto di prigione, persecuzione, e fallimentari tentativi di ribellione contro l’assolutismo e la sopraffazione di uno Stato tiranno e contro una società bigotta e pigra, Mansùr è costretto a partire, ma la sua partenza è solamente uno spostamento fisico verso il deserto rovente e selvaggio, la sua mente invece rimarrà ossessionata da quelle ragioni che l’hanno spinto all’esilio, e la sentenza nei confronti di se stesso è senza appello: “Un vecchio gallo spennacchiato e rognoso, un fallito, ecco cosa sei, Mansùr!”. 
Il fallimento di Mansùr non è solo determinato dalla sua “fuga” e quindi da un agire di cui non può essere soddisfatto, il fallimento è causato soprattutto dalla sua impotenza di agire, di incidere su una società che gli gira le spalle e lo condanna alla follia. 
Quando dico che l’approdo di Munif alla scrittura segna la nascita di un innovatore della narrativa araba, il mio non è campanilismo dovuto alla passione che ho per questo scrittore, ma è un dato di fatto. L’autore di Storia di una città (3) è stato senza dubbio il primo scrittore arabo ad ingaggiarsi in una serie di esperimenti fino ad allora poco esplorati dagli autori arabi, ed è a torto che la critica, anche quella italiana, si è concentrata troppo sulle tematiche politiche e sociali nella sua narrativa, confinandolo nello spazio assai ridotto, per uno scrittore della sua statura, “dell’autore politicamente impegnato”. 
Le intenzioni creative e innovatrici di Munif si annunciano da subito attraverso una moltitudine di tecniche narrative riscontrabili in tutte le sue opere. Di fatto, Gli alberi e l’assassinio di Marzuq non è solo il suo romanza d’esordio, bensì è una dichiarazione di intenti di quello che sarà il suo progetto di scrittura dal punto di vista stilistico e linguistico, e di riscrittura dal punto di vista storico e politico.
Il “paratesto” ad esempio è una di queste strutture che Munif ha introdotto per primo nel romanzo arabo, il diario che Mansàr Abd-Salam lascia come testimonianza, e che l’autore ha posizionato nelle ultime pagine del romanzo, serve non solo a dare una chiave di lettura originale della storia, ma anche ad arricchire il testo di tecniche narrative nuove. Munif ricorrerà al paratesto in numerosi suoi romanzi fra cui All’est del mediterraneo (4) e Ending (5), ed è un esperimento azzeccatissimo che aprirà le porte a tanti altri autori per affrancarsi sempre di più da quella struttura rigida e classicista nel quale il romanzo arabo si era impantanato. 
Un’altra innovazione portata da Munif è la molteplicità dei narratori. A manovrare i fili del racconto in Gli alberi e l’assassino di Marzuq non è un unico narratore onnisciente, ma diversi ed abili narratori che si alternano senza tuttavia spezzare il canovaccio, bensì lo sviluppano, lo arricchiscono e lo aprono su orizzonti nuovi che un unico narratore non sarebbe capace di tessere. La maestria dell’autore e la sua capacità di fare della storia una specie di lavorazione alla filigrana ben intrecciata fa sì che la narrazione fili fluida ed elegante. 
Munif mette a dura prova non solo i suoi lettori, ma anche i suoi traduttori, perché nel forgiare le sue storie e i suoi personaggi realizza un’adesione perfetta fra l’universo psichico e il registro linguistico nel quale attinge. Ho letto i suoi testi, oltre che in arabo ovviamente, in francese, in inglese e in italiano e ho sempre avuto la netta sensazione che qualcosa per strada si perda, non per colpa dei traduttori, ma perché il linguaggio munifiano è difficilmente trasportabile in un’altra lingua. La ricchezza del vocabolario del nostro autore affonda le sue radici in quella tradizione orale e linguistica che si estende dall’Eufrate fino all’Atlantico, e Munif amalgama brillantemente tutto questo patrimonio, dando alla luce un linguaggio nuovo e moderno che s’inoltra in campi semantici che mai prima di lui sono stati esplorati come la zoologia, la botanica e la geopolitica.
La coerenza di Munif nel considerarsi un arabo tout court si riflette anche nelle sue ambientazioni geografiche, i personaggi munifiani si muovono in uno spazio non ben identificato, ma chiaramente identificabile in quanto mondo arabo nella sua assoluta vastità dalle sponde del Mediterraneo fino alla Mesopotamia, dove la narrativa realizza ciò che la politica non è stata in grado di realizzare, ovverossia una grande nazione araba unita.
Rimane un solo interrogativo: chi è Marzuq? Per saperlo dovete leggere Gli alberi e l’assassinio di Marzuq.

giovedì 15 novembre 2012

"Tunisi, taxi di sola andata" a Roma, Libreria L'Argonauta, 14 novembre

Insieme all'autrice, Ilaria Guidantoni, il giornalista e saggista Luciano Lanna.
L'attore Giuseppe Bisogno ha curato le letture dal romanzo.

Da Editoriaraba: L’arte del romanzo nel verbo di Abd al-Rahman Munif (prima parte)


di Rabii El Gamrani

La prima parte (domani la seconda) di un profilo appassionato e puntuale dell’opera di Abd al-Rahman Munif, uno dei principali esponenti della letteratura araba contemporanea, uno scrittore unico nel suo genere, impegnato, innovatore e che ha racchiuso in sé tutti i significati del termine “arabo”.
L'autore dell'articolo precisa che per scrivere una buona recensione occorre prendere “distanza” dall’oggetto di cui si vuole parlare e aggiunge: " confesso che io questa distanza non la posso prendere quando si tratta di ‘Abd al-Rahman Munif". 
Il suo apporto nell’arricchire la letteratura e il dibattito culturale nel mondo arabo è stato essenziale. 
Munif pone delle problematiche al suo recensore persino per quanto riguarda la sua biografia, perché di fatto non lo possiamo presentare come uno scrittore saudita. L’autore della monumentale "Città di sale" era infatti un apolide, l’Arabia Saudita avendogli tolto la cittadinanza nel 1964. I suoi romanzi e le sue posizioni politiche disturbavano tutti i regimi arabi e perciò fu costretto ad una continua sospensione fra le geografie. 
Lui stesso non si considerava cittadino di nessun paese, ma amava definirsi Arabo, ed è in questa prospettiva del panarabismo che bisogna leggere la sua militanza nel partito Baath iracheno, lo stesso partito che lo consegnò alle lugubri celle della prigione. Munif non ebbe pace nemmeno da morto: nel 2008 la sua tomba fu vandalizzata da ignoti. Me lo immagino mentre forma dei cerchietti di fumo con la pipa che era solito fumare, fulminare questi profanatori con lo sguardo, ed imprecare su di loro mandandoli in fuga. 
Anche i protagonisti di Munif si comportano così: irascibili, dissacratori, atei, sovente blasfemi, si ribellano alle ingiustizie, lottano fino alla fine, fino alla follia o alla morte, quasi sempre dei falliti, ma dei falliti che lasciano una traccia, un segno. 
Anche Munif, dall’alto della sua formazione economica in un campo sul quale si fonda la ricchezza di tutti i paesi del Golfo, aveva delle idee su come andava gestito il petrolio, per sfruttarlo in una chiave di sviluppo sociale che sollevasse le sorti del mondo arabo. E in un certo modo lo stesso Munif ha fallito politicamente, ma a guadagnarci è stata la letteratura. 
Prima di inoltrarci nel suo verbo, facciamo un accenno di rituale alla sua biografia: nato ad Amman, in Giordania, nel 1933 da padre saudita e madre irachena, Munif ha studiato giurisprudenza a Baghdad ed ha ottenuto a Belgrado un dottorato in economia petrolifera. Ha vissuto a Baghdad, a Beirut, al Cairo e a Parigi prima di stabilirsi definitivamente a Damasco dove morì nel 2004.
L’approdo di Munif alla scrittura avvenne assai tardi, quando il futuro scrittore aveva già maturato una lunga esperienza/frustrazione nel campo politico ed economico, attività che aveva abbandonato per dedicarsi alla scrittura. 
Il suo primo romanzo apparve infatti nel 1973, e da allora, il mondo arabo scoprì un grande scrittore, un innovatore della narrativa araba nel contenuto e nella forma.

Editoriaraba

mercoledì 14 novembre 2012

"Soudain la révolution!" Géopsycanalyse d’un soulèvement di Fethi Benslama

Un nuovo scritto sulla rivoluzione tunisina che sta monopolizzando, com'è comprensibile tutto il mondo della cultura nazionale, così come è emerso anche dalla 9a edizione della primavera delle arti plastiche a Palazo Abdellia a La Marsa (Tunisi). In qualche modo la cultura ha anche anticipato la rivoluzione come i versi del poeta Basset Ben Hassan, “Ouvrez les portes”, che ha in calce "Tunisi, 10 Maggio 2010" come sottolinea l'autore di “Soudain la révolution!”, Fethi Benslama, psicanalista tunisino e docente in Francia. Per restare nella prospettiva psicologica del libro che siamo rileggendo in questo spazio, i versi del poema citato che chiudono il saggio di Benslama mostrano l'esistenza di un io collettivo, di un sentire empatico tra persone e uomini e cose. L'autore esordisce dicendo che la rivoluzione è stata improvvisa, imprevista ed è arrivata quando ormai non ci si pensava più, nel senso che come un figlio troppo desiderato spesso arriva quando si sono deposte le armi. Da tempo infatti la stessa parola rivoluzione era non solo improbabile ma inconcepibile.
Benslama scrive questo libro, come lui stesso dichiara, correndo qualche rischio proprio perché a ridosso degli avvenimenti, per sottrarre la rivoluzione alla chiacchiera e per lasciar emergere quello che dichiara l'impensabile. Questo libro non è infatti una cronaca di accadimenti, né un'opinione su cosa sia stata la rivoluzione in Tunisia o cosa sarebbe dovuta essere ma un'analisi con l'obiettivo di focalizzarsi sulla scena dello scoppio della sollevazione e dell'immaginario nel quale il potere politico ha costretto a lungo il Paese. Eppure la politica in grado di aver esercitato un potere dittatoriale ad un certo momento e in pochissimo tempo si è rivelata una tigre di carta. A pensarci bene è stata sufficiente, almeno ad una prima lettura, la ribellione di un uomo per evidenziare come quello che sembrava sopportabile è diventato insopportabile. Questa considerazione, sostiene l'autore, evidenzia una geopsicanalisi che vede l'elemento psichico articolato in una corrispondenza di individuale e collettivo. Il fatto che colpisce è che la deflagrazione è subitanea e l‟auspicato ma insperato e giudicato irrealizzabile come un sogno che si avvera.
Ora l'ipotesi principale e dichiarata di questo testo è la transizione nel mondo arabo di un disimpegno, disaffezione dal paradigma politico a quello della “égaliberté”, dell'indissolubilità dell'uguaglianza dalla libertà, per cui si può parlare di una rivoluzione sociale, interiore, dei sogni non tanto politica né ideologica, stando almeno alla proposta di Etienne Balibar, dopo - e forse a causa, ndr - che il mondo arabo ha fatto esperienza dell'essere esausto.
Nel secondo capitolo, che riprende il titolo, si evidenzia come la rivoluzione sia uscita da un angolo morto, in un paese a due velocità, con una forte separazione tra nord e sud, dove la vicenda personale di Mohammed Bouazizi è stata sufficiente allo scoppio della rivoluzione ma non per una semplice identificazione collettiva. La spiegazione è più complessa. In tal senso, come emerge chiaramente da molti testi e dall'opinione corrente tunisina ma non all'estero, segnatamente in Italia, l'analisi delle cause non può essere solo razionale e riconducibile a una prospettiva economica, che appare riduttivo. Fethi Benslama fa un'analisi acuta ed elegante, senza alcuna pedanteria, per altro con un linguaggio piano e scorrevole che invita alla lettura di un testo pur complesso e denso, della simbologia nascosta nel gesto di Bouazizi. Questo giovane è diventato una sorta di martire ma di un nuovo genere, richiamando anche nel nome il padre (bou in tunisino) azizi (caro) che non è più tale. Ora - ci fa notare l'autore - che in Tunisia e in generale nel mondo arabo il suicidio – ancor più attraverso il fuoco – è un gesto raro, anche se è stato preceduto e seguito da gesti analoghi. Questo episodio però ha avuto oltre che una sua singolarità, una forza dirompente, restituendo l'inestimabile – quello che non è più degno di stima – ad essere stimabile, trasformando l'umiliato del potere in eroe. Scendendo nell'analisi del potere corrotto l'autore che nella sua cultura spazia dalla classicità alla modernità attraversando più civiltà, cita la “Repubblica” di Platone là dove si dice che la corruzione inizia con la frode delle parole. Non è che il popolo tunisino fosse stato ridotto al silenzio ma ricondotto all'inutilità della protesta così come alcune rivolte erano state considerate degli incidenti di percorso.

"Le rivoluzioni dall’altra parte del mare" di Domenico Quirico

Un saggio di grande pregio, scritto con maestria linguistica, qualche sapiente neologismo, la scorrevolezza dello stile giornalistico, senza dimenticare la lingua poetica soprattutto nella prima parte dell'opera. E' bello ascoltare una lezione di umiltà, pur nell'accento critico rispetto all'imbastardimento dell'informazione collettiva, senza rabbia ma con l'argomentazione di chi conosce da vicino la realtà. Pur non conoscendo questo insigne collega, che è stato a lungo in Nord Africa come inviato del quotidiano “La Stampa”, non me lo immagino seduto comodamente alla sua scrivania o nei salotti del giornalismo ma in prima linea mimetizzato a provare e rischiare cosa significa stare “dall'altra parte”. L'analisi della primavera araba parte da una riflessione che credo accomuni tutte le rivoluzioni, il kairòs, il momento giusto, la scintilla che l'inconscio collettivo individua più o meno inconsapevolmente o comunque sa cogliere. Perché è evidente che in Tunisia, ad esempio, da dove tutto il movimento tellurico del mondo arabo è partito, c'erano stati moti in passato ma sembrava incredibile che potesse esserci una deflagrazione. Il fatto è che a volte i tempi non sono maturi. Le pagine della “Primavera araba” mi ricordano a tratti quelle mirabili di “Sha in Sha” di Ryzard Kapuscinski, un grande documento storico ma anche un involontario – questo il pregio, di non essere pedanti e con tesi prestabilite - saggio di metodo per capire quello che ci circonda. Tra le riflessioni sulla rivoluzione tunisina, vorrei cogliere alcuni elementi che paiono anche a me significativi, ovvero che, comunque andrà la costruzione della democrazia, nulla sarà più come prima; che la rivoluzione non sia stata condotta in nome del pane ma della dignità e che la vera rivendicazione sia hurrya, libertà. E ancora, la spontaneità di questa rivoluzione nata dal basso, dai giovani, attraverso la rete Internet senza la personalizzazione di un leader. Un altro elemento di questo testo che mi sembra significativo è mettere in parallelo diversi paesi arabi che afferiscono al mondo Mediterraneo, senza rischiare però facili omologazioni, come è il caso dell'Egitto. In effetti l'autore evidenzia il vizio d'origine che mina la costruzione della democrazia nei paesi arabi, il tentativo di forgiare i partiti calandoli dall'alto in seguito a complotti e congiure, frutto dell'intrigo e della menzogna. Gli stati moderni sono nati tutti così e non con le rivoluzioni. Ecco perché il 2010 potrebbe essere un anno spartiacque, nascendo da rivoluzioni e per di più volute dai giovani e dal popolo. La via alla modernità è segnata soprattutto dalla Tunisia di Bourghiba, una sorta di dittatura dolce, con un capo dello Stato che guida il popolo „disordinato‟ verso mete a cui tutti aspirano: modernità, istruzione e sanità in particolare, laicità e un socialismo temperato. Ma gradualmente il padre diventa padrone e tiranno. Le storie poi nello specifico sono diverse, Ben Ali ad esempio non era un soldato ma un flic, un poliziotto, in uno stato molto vicino all'Europa anche per mentalità e con poche risorse naturali. La Libia invece, è seduta sull'oro ma tutto appare vecchio, sporco e povero. In Algeria, dove la rivoluzione non è riuscita a fare breccia, ci sono ancora tribù e una società che si è gradualmente allontanata dall'Europa dagli Anni Sessanta del Novecento ad oggi. Tra l'altro lo Stato resta il primo datore di lavoro. In Marocco lo Stato è soprattutto il dispensatore di servizi ed è l'unica monarchia di questa vasta area. In ogni caso la base dello stato arabo resta la tribù, anche se mi sembra che in tal senso la Tunisia faccia eccezione. Rispetto a tal quadro, Quirico approfondisce l'islamismo e il terrorismo islamico, con una considerazione che vorrei sottolineare e che condivido a dispetto di quanto si sente dire dai più. L'attivismo islamico resta un fenomeno soprattutto urbano e non interessa solo il proletariato delle periferie. Nella lunga analisi c'è uno spazio dedicato ad un fenomeno che si conosce poco e che è la penetrazione dell'islamismo tra i Tuareg, un popolo nomade in via d'estinzione che mi pare originale. Il saggio chiude il cerchio sull'imprevedibilità delle rivoluzione e, aggiungerei, sulla disattenzione anche da parte di coloro che dovrebbero essere in qualche modo degli addetti ai lavori su quello che ci circonda. Non so se consola il fatto che sia stato sempre così. Mi dispiace invece, in sintonia con Massimo Quirico, che l‟Occidente non abbia colto la straordinarietà di quanto è riuscito a fare il popolo tunisino. “Ci pensate cosa abbiamo fatto, dannazione, e da soli, senza aiuti? Abbiamo sollevato il carico più pesante del mondo, abbiamo separato la verità dalla menzogna… Provate voi occidentali a farlo! Sono cose che accadono nelle fiabe, e questa forse lo era.”

Primavera araba
Le rivoluzioni dall’altra parte del mare
di Domenico Quirico
Bollati Boringhieri
14,00 euro

martedì 13 novembre 2012

"L’aventure ambigue" de Cheikh Hamidou Kane

Il romanzo di Cheikh Hamidou Kane – nato in Sénégal nel 1928 – è stato pubblicato a Parigi presso Julliard nel 1961, sebbene scritto nel 1952. «L’aventure ambigue», forse più conosciuta nella sua versione cinematografica, ha un sapore biografico ma diventa anche una storia universale, quella di un itinerario spirituale. Colpisce il fatto che, se è un libro iscritto profondamente nella storia di un meticcio dal punto di vista culturale, tra il Sénégal e la Francia, è anche una riflessione universale di sapore filosofico. Senza dubbio infatti l’autore oppone il sapere tecnico occidentale al pensiero dell’Islam ripiegato su se stesso e rivolto a Dio. Questa tematica che attraversa tutta la storia del protagonista, la sua lacerazione, rende il testo una lettura universale: la fatica e la difficoltà che comporta l’impegno ad essere uomo con tutte le contraddizioni che ciascuno di noi vive e che nella storia sono esemplificate tra la spinta contraddittoria e complementare di due culture.
Ora, se l’uomo è condizionato dal proprio ambiente e l’autore Chiekh Hamidou Kane è in tutto e per tutto un bambino del Fout, il fiume del Sénégal, la cui lingua materna è la lingua peule – con il pular che è uno strumento musical – con una forte tradizione orale; è altrettanto vero che si serve della scrittura araba. Per parte di madre l’autore appartiene al popolo dei Peul, questa la denominazione francese, più comune, che riunisce circa 6 milioni di persone che sono gli antichi abitanti dell’estremo occidente del Sudan. Di incerte orgini, da molti designati come coloro che abitano al di là della Mauritania, sembrano discendere almeno per una parte dai berberi e sono detti ‘i rossi’ per i riflessi ambrati della loro pelle.
Esiste in ogni caso nel sentire del protagonista l’eco dell’etica behaviorista che si fonda sulla riserva, sulla vergogna di essere uomini di colore. Nella famiglia di Cheikh Kane lo si chiama Samba, il nome di rango del secondo figlio; ma Samba porta anche il nome arabo di Cheikh Kane perché è figlio di un musulmano fervente, un maestro di vita severo, una specie di santo. Tanto che il piccolo Samba dice che suo padre «non vive, prega» rendendosi conto nel tempo che non si tratta di un’alternativa ma di una scelta, di uno stile di vita. Non è un caso che nell’indecisione della scelta del titolo l’autore avesse in un primo tempo optato per «Dieu n’est pas un parent» (Dio non è un genitore) per evidenziare in quella che è una trascrizione più che una traduzione dalla lingua peule, dell’inaccessibilità di Dio. Potrebbe dire insieme al suo presidente Léopold Sédar Senghor, «nous sommes des métis culturels. Si nous sentons en nègres, nous nous exprimons en français, parce-que le français est une langue à vocation universelle.» Sénghor, d’altronde, (Joal, 9 ottobre 1906 – Verson, 20 dicembre 2001) è stato un punto di riferimento quale cerniera tra l’Africa e l’Europa: politico e poeta senegalese di lingua francese che, tra le due guerre fu, con l'antilliano Aimé Césaire, il vate e l'ideologo della négritude. Tra il 1960 ed il 1980 è stato il primo presidente del Senegal. Senghor è stato inoltre il primo africano a sedere come membro della Académie française. E’ stato anche il fondatore del partito politico chiamato Blocco Democratico senegalese ed è considerato da molti come uno dei più importanti intellettuali africani del XX secolo, contribuendo con le sue opere alla riscoperta della cultura africana: dalla letteratura alla scultura, dalla filosofia alle credenze religiose.

"La vita è uno schifo" di Léo Malet

L’opera è il capostipite del noir francese, con una sua originalità troppo spesso non adeguatamente riconosciuta, rispetto al giallo e al poliziesco. L’autore è il Maigret francese, che talora lo supera nell’acutezza e nella complessità psicologica, anche se molto meno noto al grande pubblico. La vita è uno schifo è stata scritta alla fine degli Anni Quaranta del Novecento e poi riunita nella Trilogie Noire andata in stampa alla fine del 1969 dall’editore Eric Losfeld. La sovra copertina era del pittore Magritte e oggi quella pubblicazione appare come un evento letterario per varie ragioni, a cominciare dalla casa editrice La Terrain Vague (terra di nessuno) che pubblicava e riscopriva autori maledetti come Boris Vian. Una testimonianza dell’autore evidenzia quando Léo Malet tenesse a questo romanzo e mette in evidenza alcuni messaggi: il protagonista, Jean Fraiger, è tanto sanguinario quanto tenero, un personaggio che finisce in scacco; smascherato dall’analisi dello psicanalista del quale lo scrittore confessa aver provato il fascino. La dimensione onirica, delirante serpeggia nell’opera, attingendo alla cultura surrealista che ha contaminato l’opera di Malet e che l’autore ha frequentato da vicino, come testimoniano delle lettere critiche di René Magritte su questo testo. La storia è semplice e se vogliamo banale: un gruppo di anarco-comunisti sostiene con furti e rapine il proprio credo: l’illegalità come strumento per ristabilire la giustizia, la propria giustizia e quella del gruppo di appartenenza. Per ammissione dello stesso Léo l’ideologia si rovescia presto in azioni di criminalità comune, con una banalizzazione del male. L’assunzione che la vita sia uno schifo e la frase, pronunciata dal protagonista, torna come un refrain nel corso delle pagine, rende naturale compiere il male come se non si potesse fare diversamente. L’ascendenza della filosofia di De Sade si sente ma mentre il Marchese tranquillizzava le proprie amiche dicendo che “il lupo non mangia la carne del lupo”, qui il gruppo sfuma come valore di solidarietà, di amicizia, di complicità ma si disegna solo come insieme di ingranaggi funzionali alla macchina e ad un piacere immediato, come una bevuta insieme, che può disgregarsi da un momento all’altro.

La donna ‘’Tipo Tre’’ di Umberto Notari

Un’amica una sera, venendo a cena a casa mia, mi ha regalato questo libro, un bouquin illustrato vecchio stile – con otto litografie colorate del pittore Enrico Sacchetti – che aveva tutta l’aria di un intrattenimento ironico e divertente, ma anche leggero. Devo riconoscere che il testo, scritto nel 1929, è un gustoso affresco della trasformazione della donna, allora agli albori, soprattutto con una grande capacità predittiva, che ha dell’incredibile. Oggi sarebbe utile un sociologo attento e poco accademico e non troppo presuntuoso, in un periodo nel quale tutti fanno previsioni su tutto e regolarmente sbagliano.
La prima edizione della nuova versione, curata dalla giornalista e pittrice Maddalena Sisto, è del 1998 e alla fine introduce una serie di commenti che partono dall’analisi di una frase del libro, da Raul Montani, a Carlo Lucarelli, a Elio e le Storie Tese.
Superata la donna ‘’tipo uno’’ madre e moglie sottomessa, angelo del focolare, e la donna ‘’tipo due’’, desiderabile solo per soddisfare i piaceri della carne, ecco la donna del terzo tipo, nata paradossalmente proprio dall’uomo. Con la civiltà meccanica, la macchina diventa protagonista, mentre l’uomo maschio abdica in parte alla fatica del lavoro che non richiede più la forza muscolare sebbene la pazienza e la dedizione típica della donna. Così, anche per coprire i fabbisogni della famiglia, in continua crescita nella società dei consumi, stimolati dalla filosofía del denaro, il capo famiglia delega la moglie a lavori di manovalanza ripetitiva, funzionali al capo, maschio. Nascono così segretarie, dattilografe, operaie, e si moltiplicano sarte e artigiane di varia natura. D’altra parte la donna aveva già un’attitudine non da poco all’economia con il suo ruolo di economa domestica e la famiglia è il primo modello di azienda. In nuce la donna di tipo tre esisteva già, però mancavano dei requisiti essenziali: per le artigiane, pensiamo all’esercito di lavandaie, sarte e stiratrici, il salario e l’inquadramento
contrattuale; lo stesso può dirsi per le contadine che comunque lavoravano sempre nell’ambito famigliare sotto ‘custodia’ dell’uomo di casa, fatte alcune debite eccezioni, come nel caso ad esempio delle mondine.

sabato 10 novembre 2012

Novembre sotto il segno delle lettere arabe

Editoriaraba presenta il calendario di novembre
Un'agenda fitta di appuntamenti, soprattutto nella Capitale. Prima tappa con la Siria.



Rassegna LEGGENDO LA SIRIA – Eventi culturali, dibattiti e reading
Napoli, 12 & 16 novembre

Lunedì 12 novembre 2012 ore 16.00 | Centro CEICC, in via Partenope 36, Napoli.
Incontro con la poetessa siriana Maram Al-Masri e performance artistico-musicale con accompagnamento in flauto e chitarra; interviene Sami Haddad, docente di lingua araba dell’Università Orientale.

Venerdì 16 novembre 2012 ore 16.00 | Centro CEICC, in via Partenope 36, Napoli.
Incontro con gli scrittori:Khaled Solayman – Al Nassyri, poeta, scrittore e grafico siro-palestinese;Fawzi Karim, poeta e intellettuale iracheno; Pina Piccolo, poetessa e traduttrice italo-americana.
Informazioni anche sulla pagina Facebook di uno degli organizzatori-partecipanti

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SETTIMANA DELLA LINGUA ARABA E DELLA CULTURA EGIZIANA
Roma, 12 – 16 novembre
L’ufficio culturale dell’Ambasciata d’Egitto a Roma ha organizzato la prima edizione della settimana della lingua araba e della cultura egiziana. Evidentemente l’arrivo del suo nuovo direttore, che è un italianista ed è appassionato di letteratura e traduzione, comincia a dare i suoi frutti.
Vi segnalo gli appuntamenti più interessanti (e rilevanti per questo blog!), che si svolgeranno in diversi luoghi della capitale, invitandovi però a leggere il ricco programma contenuto nella brochure (qui e qui ), che prevede molti altri momenti dedicati al folklore, cucina, primavera egiziana, ruolo dei media etc. etc.

12 nov | 11.30-12.30 @Sapienza
Conferenza sulla letteratura araba e la letteratura italiana, coordinata dalla Prof.ssa Camera d’Afflitto. Presente lo scrittore egiziano Sonallah Ibrahim!

13 nov | 19-20.30 @Ufficio culturale egiziano
Conferenza sulla traduzione dall’arabo in italiano e viceversa

14 nov | luoghi vari
Giornata dedicata all’insegnamento dell’arabo in Italia

15 nov |10-13 @Sapienza
Conferenza su Letteratura e migrazione, coordinata dalla Prof.ssa Franca Sinopoli. Interviene lo scrittore Mohamed Ghoneim

16 nov | 9-11 @Luiss
Conferenza sul ruolo degli intellettuali nella transizione egiziana, coordinata dalla Prof.ssa Francesca Corrao.

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KARAWAN FEST – IL SORRISO DEL CINEMA ARABO
Roma, 15 – 18 novembre

Rassegna cinematografica dedicata al cinema dai paesi arabi che si svolge nel quartiere di Tor Pignattara dal 15 al 18 novembre: 4 giorni di proiezioni e incontri, un vero e proprio viaggio attraverso il cinema per scoprire su grande schermo colori, passioni e racconti da Tunisia, Algeria, Libano… oltre a un film-evento speciale che inaugura il cartellone di eventi di Karawan!

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PRESENTAZIONI
Roma, 23 novembre
23 nov | dalle 15.00 @Sapienza/Facoltà di Scienze Politiche
Presentazione dell’ultimo numero di Geopolitica dedicato a: “La primavera araba un anno dopo” , con la prof.ssa Biancamaria Scarcia Amoretti e altri relatori. Il programma è scaricabile qui

23 nov | 17.00 @IPOCAN (via Caroncini 19)
Presentazione del libro di Massimo Campanini “L’Alternativa Islamica”, Bruno Mondadori Editore.

Firenze – 28 novembre
Presentazione del libro “Egitto inedito”, dell’antropologa Anna Tozzi de Marco e mostra fotografica del collettivo Al Qarafa (più informazioni a breve)

giovedì 8 novembre 2012

Editoriaraba: dall'arabo al francese


 
Actes Sud si dedica alla traduzione della letteratura araba

 
Actes Sud – neo vincitrice del Goncourt con Jérom Ferrari, ndr – ha un ricco catalogo di autori arabi.

Tra le novità,  la traduzione del nuovo romanzo di Hoda Barakat , il cui titolo francese, Le royaume de cette terre, rispecchia fedelmente quello arabo. Il libro è uscito a settembre in Francia e sul sito della casa editrice è disponibile un estratto dal primo capitolo, nonché un video in cui la scrittrice racconta la sua ultima fatica.

Dans un village maronite de haute montagne, replié sur son identité propre qu’il brandit fièrement contre tous les “autres”, qu’ils soient chrétiens ou musulmans, un homme meurt un jour dans une tempête de neige et est dévoré par les hyènes. Ses enfants, Salma et Tannous, se relaient pour raconter les péripéties de leur existence, elle qui se dévoue pour conjurer le mauvais sort qui plane sur la petite famille, lui qui est contraint de fuir et n’a que sa belle voix pour compagne.
De l’époque du Mandat français à 1975, quand éclate  la guerre civile, Hoda Barakat  retrace près de soixante-dix ans d’histoire locale, tantôt tragique, tantôt burlesque. Elle multiplie les angles d’approche, restituant avec autant de précision que de tendresse les gestes de la vie quotidienne, les rites religieux et la langue toujours truculente des habitants. À travers ses personnages hauts en couleur, dévots et belliqueux, ingénus et malicieux, se lisent en filigrane les métamorphoses du lieu, mais aussi son enracinement dans ses traditions ancestrales. Microcosme d’un monde où les minorités confessionnelles sont demeurées réfractaires à l’intégration dans la communauté nationale.

Ad ottobre invece è stata pubblicata la traduzione del secondo romanzo dell’egiziano Khaled al-Khamissi, dal titolo in francese L’Arche de Noé. Anche qui la traduzione rispecchia il titolo originale arabo, سفينة نوح . L’Arca di Noè, pubblicato nel 2009 da Dar el Shorouk, è un racconto corale sull’Egitto pre-rivoluzionario, quasi un romanzo premonitore degli sconvolgimenti sociali e politici che il paese avrebbe vissuto di lì a poco. Ennesimo romanzo che testimonia di quella incredibile capacità degli intellettuali – scrittori, segnatamente – di avvertire empaticamente i problemi del popolo e tradurli sotto forma di racconto, romanzo, poesia.

L’auteur de Taxi campe ici, avec la même verve et le même talent de conteur, douze personnages dont les destins se sont croisés avant ou après avoir émigré à la recherche d’un emploi – ou tenté de le faire. Le premier, Ahmad Ezzedine, est un jeune licencié en droit qui ne parvient pas à accéder au poste qu’il a toujours ardemment souhaité, faute de pouvoir payer le pot-de-vin “réglementaire”. Il se décide à partir pour les États-Unis et rompt avec sa fiancée. Celle-ci est contrainte par ses parents à se marier avec un restaurateur déjà installé à New York. Il est assisté de son cuisinier et homme à tout faire, Abd al-Latif Awad, entré clandestinement aux États-Unis après un périple rocambolesque en Amérique du Sud. Mais Abd al-Latif ne tarde pas à se mettre au service d’un homme d’affaires véreux qui a réussi à passer sa grosse fortune à l’étranger et dont le fils, Farid, mène à Londres une vie de bâton de chaise… Défilent ensuite les autres personnages : le professeur de philosophie dans une université britannique, son cousin reconduit en Égypte après une tentative ratée d’immigration clandestine, le jeune Nubien d’Assouan, le passeur débrouillard, la doctoresse copte, la prostituée.
À travers ces portraits se révèle une société sur le point d’exploser, minée par la corruption, la répression politique et les discriminations confessionnelles ou ethniques. À la lumière des événements de 2011 en Égypte, ce roman de Khaled Al Khamissi, paru en 2009, frappe par sa puissance prémonitoire.