venerdì 16 novembre 2012

"Poesie dell’Africa" di Lépold Sédar Senghor

L’Africa è l’anima, gli occhi attraverso i quali vede e sente Lépold Senghor, considerato il maggior poeta africano, creatore della négritude, essenza dell’uomo africano;, primo presidente del Senegal indipendente dai francesi dal 1960, lui cristiano in un paese a prevalenza musulmana.
Senza aver sfogliato il libro fino alla fine e senza aver letto neppure il titolo del manifesto, La négritude, le parole, le metafore, indirizzavano l’animo verso un nucleo originario legato alla terra africana, al di là della geografia e della storia; qualcosa che è oltre la cultura, per attingere direttamente alla matrice ancestrale.
Di questi componimenti per certi versi vicino alla prosa, almeno stando alle regole metriche e del gusto occidentale della scrittura poetica, mi ha colpito il loro carattere discorsivo, eppure prezioso con la ricerca della parola adeguata e ponderata, ogni volta ‘giusta’, così quotidiana pur essendo indicibile ai più: rivelatrice, dietro l’abito dell’emozione genuina e del contesto africano e francese, specchio della biografica dell’autore, di una cultura profonda, non semplicemente di una fine sensibilità, che attinge a piene mani dalla classicità senza citarla. Non è facile la lettura al primo approccio: si può restare perplessi, avvertire la lontananza della cultura di provenienza; poi improvvisamente, si rompe il ghiaccio e si entra nell’empatia di un nucleo originario e comune, antecedente le divisioni e le partizioni nazionali.
Ci vuole un po’ di tempo, disponibilità, umiltà per abbandonarsi ad un mood che certamente non ci è consueto nello stile. Oltrepassando l’abito però, si coglie invece l’universalità del sentimento e dell’emozione, fluidi e perfino ingenui.
Tra i temi il mare, a me molto caro, mi appare come uno dei fili conduttori e ancora il sole, nell’incandescenza del tramonto – prima che sia buio – con quell’aurea di malinconia e irrequietezza che lascia nell’avvicinarsi della notte. L’uomo appare tutt’uno con la natura nel suo sentire, soprattutto un sentire d’amore. L’amore non ci appare un sentimento generico, quanto il legame con un “tu”, destinatario della maggior parte delle poesie che si rivelano un dialogo consolatorio. L’altro è la misura della propria vita, la spia dell’accensione, pur nel dolore della separazione. La poesia è in certo modo consolatrice, con le lettere a tenere compagnia e viva la corrispondenza degli animi. Si avverte con grande naturalezza la compresenza di due culture imprescindibili per il poeta che più volte menziona la figura del ‘poeta pastore’.
Struggenti molti versi, quanto lucida l’analisi del poeta filosofo ne’ La negritudine nella quale dice che “qualcuno mi ha rimproverato di aver definito l’emozione come negra e la ragione come ellenica, cioè europea. Ed io mantengo fermamente questa mia tesi”. Nello specifico la ragione africana è intuitiva e l’arte esplicativa, partecipa al vitalismo degli oggetti; non si limita a riprodurli, tenendoli a distanza, e guardandoli. La conoscenza della tradizione greca è evidente come nella contrapposizione tra l’ontologia unitaria nera e la visione duale occidentale. L’uomo nero, secondo Senghor, sente la natura, sentendosi parte di essa e attraverso le cose si sente vicino a Dio; mentre l’uomo occidentale studia gli oggetti e li gestisce. Forse alcuni aspetti sarebbero da recuperare, considerando che il nostro autore è riuscito a sintetizzare il vitalismo africano nel cristianesimo.


Poesie dell’Africa
di Lépold Sédar Senghor
Bandecchi&Vivaldi EDITORI
6,90 euro

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