mercoledì 18 aprile 2012

"La parola e la scena" di Silvana Matarazzo


Roma, Teatro Argentina, Martedì 17 aprile 2012

articolo a cura di Adele Maddonni*

Pomeriggio di parole a teatro, nella Sala Squarzina del Teatro Argentina di Roma, in occasione della presentazione del volume di Silvana Matarazzo, La parola e la scena, (Editrice ZONA), una ricognizione sulla scrittura teatrale italiana dagli inizi degli anni Ottanta, attraverso dieci conversazioni con altrettanti drammaturghi - Manlio Santanelli, Franco Scaldati, Ugo Chiti, Enzo Moscato, Giuseppe Manfridi, Edoardo Erba, Antonio Tarantino, Spiro Scimone, Emma Dante, Letizia Russo -; a chiudere il ciclo di testimonianze l’attore e regista Toni Servillo.
Insieme alla scrittrice sono intervenuti il giornalista e critico teatrale Antonio Audino, autore della prefazione del libro, e due dei drammaturghi intervistati, Giuseppe Manfridi e Spiro Scimone.
Nel suo intervento di apertura, prima di lasciare la parola all’autrice, Audino ha sottolineato come la scrittura teatrale degli ultimi trent’anni sia stata di livello assoluto, pur non rimanendo scrittura “da laboratorio”, ma riservando grande attenzione alla realtà italiana. Forte è stato il legame con la radice locale, sia per l’ambito di visuale scelto sia dal punto di vista linguistico. Una scrittura che ha dedicato grande attenzione a zone critiche, di sofferenza della realtà del nostro paese ma non limitandosi ad una mera registrazione del dato reale, mantenendo alto il livello di elaborazione formale.
L’autrice parte dagli anni Settanta, con il teatro di avanguardia (in cui la parola era mero pretesto, mentre predominavano il gesto, i movimenti, la luce), indicando come spartiacque Uscita d’emergenza di Manlio Santanelli (1983), testo con cui si riscopre il bisogno di raccontare attraverso la parola. L’obiettivo è dar vita ad una riflessione, attraverso il vissuto, le storie e le esperienze degli autori interessati, facendo raccontare loro, in presa diretta, la propria esperienza: come nasce la scrittura di un autore, che cos’è una poetica teatrale, qual è l’importanza della lingua?
Da parte dei drammaturghi è emerso il bisogno di trovare una lingua che riuscisse a riunire lo iato che si era venuto a creare tra parola e scena, di trovare una “parola” per raccontare il proprio tempo; da cui l’ampio ricorso al dialetto, non solo in quanto lingua degli affetti, ma proprio per il ritmo, per la musicalità e la possibilità di conferire “corpo” che lo caratterizzano.
Giuseppe Manfridi ha spiegato come il grande avversario del drammaturgo italiano sia proprio la lingua italiana, una sorta di “Esperanto nazionale”, che riassume e suggella nel proprio corpus una serie eterogenea di parole e vezzi idiomatici. La lingua tedesca si presta a tradurre in parola detta il pensiero filosofico; quella inglese è fatta per la drammaturgia, per la maggiore presenza al proprio interno di consonanti, e per la modulazione che questo comporta nelle fasi del respiro: è una lingua che è già voce (e la voce è un’estensione del corpo) e si presta perciò fortemente a redigere dialoghi.
La lingua di Dante, così ricca di vocali, è più adatta ad essere letta; per questo gli autori di testi teatrali finiscono per preferire il dialetto, o addirittura l’idioletto, una lingua “calda”, che è anche una chiave narrativa, serve al drammaturgo perché frantuma la parola, rende la lingua concreta nella sillaba.
Anche Spiro Scimone si è soffermato sul fatto che nello scrivere per il teatro, per riuscire a dare concretezza, vita, il drammaturgo deve “scrivere con il corpo”. Allo stesso modo l’attore deve trovare il “corpo” del personaggio, non soltanto la voce.
Il teatro ha bisogno, si fonda sull’interazione di autore, attore e spettatore: da questi tre elementi non si può prescindere. L’autore deve già tenere conto del fatto che ci sarà un corpo dell’attore, che darà concretezza alle parole scritte. Il corpo dell’attore entra a sua volta in relazione con quello dello spettatore. Questa relazione avviene attraverso l’ascolto: delle parole ma anche dei silenzi, che sono delle “parole non dette”, “spazi” che si vengono a trovare tra una parola forte, che precede e prepara al silenzio, ed una ancora più forte, che ad esso segue, sottolineandolo ulteriormente. La dinamica parole-silenzi mette in moto e alimenta l’immaginazione. Ma anche le parole nel teatro, mentre ci dicono alcune cose, ne tralasciano altre, o semplicemente alludono, lasciando all’immaginazione dello spettatore il compito di proseguire il percorso o colmare i “vuoti”.
Significativo ed emblematico, l’aneddoto raccontato dal drammaturgo messinese a conclusione del suo intervento, riguardo una scena del suo testo teatrale Bar (1997), da lui aggiunta alla prima versione dell’opera, su sollecitazione di uno degli attori protagonisti. Durante le prove si era creato, infatti, una sorta di blocco per l’attore, che, a conclusione della scena precedente, non riusciva ad andare avanti; né il regista, da parte sua, era in grado di sciogliere il nodo e proseguire nella messa in scena. E’ dovuto intervenire il drammaturgo, con una ulteriore porzione di testo, per far proseguire l’azione scenica dell’attore. Mancando l’uno, infatti, l’altra si era interrotta: esempio perfetto di simbiosi ed interazione dei due elementi nel teatro.


LA PAROLA E LA SCENA.Conversazione con dieci drammaturghi contemporanei e una testimonianza di Toni Servillo
di Silvana Matarazzo
Prefazione di Antonio Audino
ZONA 2011
pp. 176 - 18 euro


*Nata a Roma, Laureata in Lettere, con indirizzo Italianistica, all’Università “La Sapienza”. Dopo un master in Editoria, ha collaborato come correttrice di bozze ed editor, tra gli altri con il Censis e l’Inail. Collabora con Ilaria Guidantoni nell’attività di ufficio stampa, organizzazione di eventi, nella gestione ed aggiornamento dei contenuti per il sito web e i blog.

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