martedì 4 giugno 2013

Editoriaraba - “La pioggia” di Rachid Boudjedra: parola di donna, scrittura di uomo


Lo scrittore algerino Rachid Boudjedra è stato ospite della Fiera del libro ad Abu Dhabi. La pioggia, fin dalle prime e difficilissime pagine dell’introduzione scritta da Giuliana Toso Rodinis (che ha anche curato la traduzione), si era rivelato un libro tosto, duro, appuntito e crudele, scrive Chiara Comito da lettrice, della quale è possibile leggere tutte le note sul blog Editoriaraba.

L’eroina di questo breve romanzo è un giovane medico algerino che, nell’arco di sei notti, al battere della pioggia che ticchetta sulle sue finestre, rievoca in un diario notturno le fasi della sua vita: l’infanzia, l’adolescenza e la maturità. Le memorie del passato si intrecciano con gli eventi dell’oggi e ci restituiscono il quadro di una donna tormentata, affetta da nevrosi e incapace di comporre il mosaico di persone e ricordi che sono causa della sua insonnia notturna.

Capiamo subito perché la protagonista del romanzo è una donna irrisolta quando leggiamo che, nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, è stata vittima di un trauma che l’ha segnata per la vita: all’apparire del primo ciclo mestruale la giovane aveva infatti chiesto al fratello minore se anche il suo approdo all’adolescenza era stato segnato dal sangue. Il fratello l’aveva schiaffeggiata, e quello schiaffo e l’offesa volgare subito dopo pronunciata (“ora quella non ti serve solo per pisciare”), avrebbero rappresentato per la giovane donna un punto di non ritorno:

Ancora oggi risento il marchio di quel colpo sulla guancia destra. […] Da allora non mi sono più liberata della mia terribile disgrazia e non me ne libererò forse mai più.

La disgrazia, era quella di essere nata e diventata donna in Algeria. Boudjedra tratteggia i contorni di una società algerina maschilista e conservatrice attraverso le perversioni di personaggi minori e le figure familiari della protagonista: un padre assente fisicamente, una madre assente spiritualmente; una zia zitella, il cui segreto, un amore saffico, ricade come un macigno sulla famiglia e due fratelli, il minore dei quali è un alter ego della protagonista, altrettanto contorto e turbato.

Impossibilitata a parlare con la madre, incapace di spiegarle cosa sta accadendo al suo corpo e che non trova miglior modo che rifugiarsi in un doloroso mutismo, la protagonista elabora da sé quel momento fondamentale nella vita di ogni donna. Il risultato è un’incapacità di gestire il rapporto con gli uomini e la conseguente fobia patologica nei confronti del genere maschile, a cui però fa da contraltare la scelta professionale, che la porta a specializzarsi, una volta medico, nelle malattie dell’apparato genitale maschile. La mancata elaborazione della propria femminilità e sessualità, la rottura traumatica con il mondo dell’infanzia e l’assenza di fluidità tra la propria condizione psicologica di donna e il proprio corpo risultano, da un lato, nell’elaborazione di pensieri contorti, ossessioni, distorsioni del mondo materiale e paure: Ho paura allora di non avere mai il coraggio di venire a capo delle mie velleità e d’altri progetti ovvero delle idee fisse e ripetitive nelle quali m’impegolo. Incapace di ritrovare la serenità dopo quella telefonata così tardiva. Incapace – anche – di uscire dal cerchio delle mie piccole sventure. Come se mi ci fossi abituata. E dall’altro in una scrittura spezzata. Boudjedra rende con l’assenza di virgole questa mancanza di fluidità: nel romanzo ci sono solo punti, mai virgole. Perché le virgole creano dolcezza, morbidezza, attesa sospesa che continua nella pagina. Mentre il punto è un arresto, è netto, è una cesura. Il punto non crea attesa ma divide.

E poi c’è l’uso ossessivo degli aggettivi, che compaiono quasi sempre in numero di tre, spezzati dai punti. Come una cantilena interrotta: A venticinque anni già zitella. Superba. Indocile. Bizzarra.

Formi vibratili. Molli. Dilavanti.

O ancora: ...dicendo fifone e fermandosi subito dinanzi a quell’occhio torvo. Grigio. Metallico. Metallizzato. Vitreo. Vetrificato. Indifferente.

Allo stesso tempo però, la scrittura scivola via, come la scia di una lumaca (animale che ricorre nella produzione di Boudjedra e che è uno dei topoi ricorrenti nel romanzo): si arrotola su se stessa e va avanti e indietro nel tempo, nei ricordi e nelle ossessioni della protagonista. Nonostante tutto, Boudjedra riesce a creare un microcosmo narrativo poetico, quasi onirico, popolato di metafore vivide e precise.

A partire dalla pioggia: che bagna la città, ne ingorga le tubature e che però non è sinonimo di pulizia. L’acqua che scende dal cielo non lava i peccati della protagonista nè le sue ossessioni, ma le riverbera nel pensiero e negli atti. È un’acqua quasi sporca che non intacca la “secchezza” della protagonista. L’acqua è melma, non purezza.

Questa sensazione di viscidume e mollezza impiastratalmente tanto il romanzo che nel leggerlo ho avuto l’impressione di ritrovarmi all’interno di un burrone melmoso e verdastro i cui filamenti mi trascinavano verso il fondo.

La scrittura però è anche catarsi: è purificazione, ricerca della verità, ricerca di ordine, è la bussola per orientarsi nel labirinto della memoria e di una realtà popolata da pazienti malati e parenti turbati.

La scrittura è anche ricerca della felicità, come scrive Toso Rodinis nell’introduzione.

Un po’ come la protagonista, che trova la salvezza nella pagina, che serve ad allontanare l’idea della morte, e in altri due elementi “vivi”: il gelso penetrante e la sua topolina, madre salvifica e tenera.

E la pena intima e profonda che si prova verso di lei per tutto il romanzo, trova sfogo alla fine, attraverso le lacrime (acqua pura) che, per la prima volta, fluiscono libere, senza punti, ormai.

La pioggia è un libro che turba l’immaginario femminile (e maschile?). E il fatto che a dare voce ai turbamenti di una donna in modo così preciso sia stato un uomo, per me è stupefacente.

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