giovedì 11 luglio 2013

Editoriaraba - La Beirut di Samir Kassir: “una città araba ma diversa, una città diversa ma araba”


di Silvia Moresi

In più di seicento pagine lo storico, giornalista e scrittore libanese Samir Kassir ci racconta l’evoluzione architettonica, culturale, politica e sociale di Beirut dal periodo cananeo fino al periodo dei massacri della guerra civile e dell’occupazione israeliana degli anni Ottanta. Una storia lunga e intricata che fa di Beirut, il più straniante degli scenari, e il meno straniero: una città araba ma diversa, una città diversa ma araba.
Il saggio per la quantità di notizie e per la complessità della storia stessa della città all’inizio apparirà di non agevole lettura ma, andando avanti, la narrazione troverà una sua continuità e scorrevolezza. E’ consigliabile però, sin dalle prime pagine, munirsi di penna e agenda per appuntare nomi, date o eventi che altrimenti, arrivati a pagina 654, saranno stati irrimediabilmente dimenticati.

Nella prima parte del saggio “Beirut prima di Beirut”, Kassir riporta alcuni dei miti che sarebbero alla base della fondazione della città e del suo nome: Biruta, primo nome conosciuto della città, sarebbe infatti legato al significato di “pozzi” o “sorgenti d’acqua” di cui era ricco il sito e, come ci fa notare Kassir, ancora oggi è facile ritrovare nella parola “bi’r” (pozzo) in uso nell’arabo moderno, una certa assonanza con il nome della città. Ancora più interessante, per gli sviluppi tragici della storia di Beirut e del Libano, è leggere come i cananei, chiamati successivamente fenici dai greci (dal mito della Fenice), sarebbero probabilmente originari della penisola arabica, tesi che scardina completamente, e che fa apparire a dir poco ridicola l’ideologia falangista del fenicismo.
Nei capitoli successivi, soprattutto attraverso una meticolosa descrizione dei cambiamenti architettonici e urbanistici della città, Kassir ci guida tra le alterne vicende di Beirut, passata dal dominio egiziano all’impero romano, diventandone una colonia (Colonia Iulia Augusta Felix Berytus) conquistata nel 1110 da Baldovino, annessa al regno crociato di Gerusalemme, e poi riconquistata nel 1187 da Ṣalāḥ al-Dīn ibn Ayyūb (Saladino). Grande rilievo è dato da Kassir al lungo periodo della dominazione ottomana della città, periodo durante il quale Beirut, grazie alle riforme delle tanzimat e all’idea diosmanlilik (nazionalità ottomana), visse un periodo di profondi cambiamenti. Il nuovo assetto della città, la rimessa a nuovo del porto che la trasformerà in uno degli scali più importanti del Levante, e la mescolanza degli stili architettonici, inizieranno a far apparire Beirut come una città “mediterranea moderna e piuttosto borghese”. In questi capitoli Kassir si sofferma sulla descrizione particolareggiata di quartieri, strade e palazzi e non sarà sempre facile seguirlo nel suo addentrarsi nella città senza avere davanti agli occhi almeno una mappa o foto del periodo, presenti comunque nel testo.

Sicuramente si prestano ad una lettura più scorrevole i capitoli che affrontano i cambiamenti della città dal punto di vista intellettuale e culturale. Il risveglio culturale, la nahdah, che investì il mondo arabo nel XIX secolo, vide la nascita a Beirut di case editrici e giornali, nonché un proliferare di scuole e collegi religiosi, che fecero della città “un polo di conoscenza e un focolaio di agitazione intellettuale”. Il fenomeno della nahdah, nato anche e soprattutto dal contatto e dallo scambio di idee tra Oriente e Occidente, attirò un gran numero di intellettuali europei a Beirut e diede vita a quello che Kassir chiama tafarnuj tradotto con il termine mimetismo: una imitazione ideologica e culturale degli stili di vita europei che, successivamente, diventerà l’imitazione degli stili di vita di un paese in particolare: la Francia.
Nel capitolo “Grande Libano e Piccola Parigi” l’intellettuale libanese descrive i cambiamenti culturali concreti portati dal mimetismo: dall’utilizzo della forchetta, all’abbigliamento femminile, alle domeniche consacrate all’ippodromo. Il mimetismo influirà soprattutto sulla lingua che, nel parlato quotidiano, assorbirà una quantità enorme di termini francesi dando vita ad espressioni “meticce” come 'merci ktir' (grazie tante) o 'pardon minnak' (mi scusi) che sono una specificità del dialetto libanese e beirutino.

Dopo la fine del mandato, nel periodo d’oro di Beirut, anche chiamata “la Svizzera d’Oriente” Kassir ancora una volta punta il dito soprattutto su una politica del laissez-faire in ambito urbanistico che aveva trasformato la città in un agglomerato di immensi palazzoni “le cui decorazioni facevano a pugni tra loro”. Le periferie si erano ingrandite a dismisura e i quartieri erano già chiaramente delineati secondo le specifiche coloriture confessionali. L’urbanistica beirutina descritta da Kassir in questi capitoli è esattamente uno dei motivi che porteranno il poeta Adonis a definire Beirut una “non città” in quanto popolata da comunità “a-sociali” (la-igtima’iyya) basate solo sull’individualismo e l’egoismo, “chiuse con il filo spinato all’interno delle loro tradizioni”*.

Samir Kassir conclude il suo saggio con gli avvenimenti della guerra civile e dell’occupazione israeliana, a cui volutamente non dedica troppo spazio. La costituzione dei partiti falangisti, la questione dei profughi palestinesi e la pastoia del confessionalismo: nulla o quasi di ciò che porta alla guerra è ignorato, ma la guerra propriamente detta è trattata solo come uno sbocco, per quanto non ineluttabile. Kassir, infatti, ci spiega che narrare della città in guerra avrebbe snaturato quella che era l’idea del libro: il quale come storia della città, è la storia di una civiltà, magari da reinventare, e non quella della sua morte.
In conclusione, Beirut di Kassir è un vero e proprio viaggio nella storia di questa città, e come un vero viaggio non può essere intrapreso senza una penna, un taccuino e una mappa…
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* Beirut, la non città, Adonis, Medusa, 2007

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