lunedì 23 dicembre 2013

Editoriaraba - E poi venne l’inverno, nella poesia di Golan Haji

Questa recensione è stata pubblicata ieri su Osservatorio Iraq – Nord Africa e Medio Oriente.

Come un manto bianco, immobile e silenzioso, la neve ha ricoperto il Medio Oriente negli ultimi giorni, non risparmiando i campi profughi in cui vivono centinaia di migliaia di siriani in fuga da una Siria lacerata da due anni di guerra civile e vittima dell’indifferenza del mondo.

È impossibile non pensare ai tanti bambini, uomini e donne intirizziti o morti per il freddo tagliente quando si leggono le poesie del poeta curdo siriano Golan Haji contenute nella raccolta L’autunno, qui, è magico e immenso (Il Sirente, 2013), dove i versi scandiscono i tempi di stagioni terribili, fatte di polvere, lacrime, pioggia, sangue, dolore e desideri irrealizzati.

E di neve. La neve su cui camminano, ad esempio, i soldati della poesia “Scrigno di dolore” in cui il poeta, parlando della condizione degli esiliati, che egli stesso vive dal 2011, scrive:

“Ora sei una storia raccontata dove manchi./La tua gola, scrigno di dolore,/è piena di ossa e piume./Nel bianco dell’ occhio/hai una macchiolina di sangue arrugginita/simile a un sole che tramonta lontano/su un campo di neve/calpestato da lunghe file di soldati affamati”.

La lingua di Haji è densa, potente, terribile e allo stesso tempo capace di suscitare emozioni familiari, intime e a volte tenerissime. Dall’accostamento di colori, ricordi e oggetti nascono immagini disturbanti e inquiete che interrogano il lettore e lo costringono a riflettere. Il poeta fa largo uso dei colori che associa a sensazioni o cose: rosso è il sangue vivo, che dilaga inarrestabile (“e nulla questo sangue fermerà/escluso il sangue e il vento”); gialle sono le foglie che “volano ed urlano”; l’azzurro evoca immagini fredde e laceranti come un tatuaggio che gocciola come un profumo o il colore del soffitto di una stanza d’esilio. Nera, infine, è la notte di un inverno che non accenna a finire. Una notte pesante che si dischiude all’infinito ma che era sanguinosa già nel 2011, come nella poesia “Scrigno di dolore”, in cui il poeta si chiede come si possa seppellire il dolore, dopo avere sepolto i morti.

Paradossi e metafore si intrecciano ad oggetti e suoni vivi e lontanissimi tra di loro che rimandano ad immagini plastiche, rotonde e surreali. Nel leggere le poesie contenute nella raccolta sembra quasi di trovarsi di fronte ai quadri dei maestri del surrealismo come Magritte e Dalì o alla pittura metafisica di De Chirico: la lettura provoca inquietudine e perdita di ogni riferimento spazio-temporale proprio come la visione delle loro opere.

La luce in Haji è talmente accecante da provocare il buio, come ne “L’impero delle luci” del maestro francese; il corpo del poeta si apre al mondo, è finestra in cui guardare e da cui guardare all’esterno come nell’opera di Magritte “La voix du sang”.

(“Coloro che attraversavano il cielo/esteso si avvicinarono a guardare,/una mano mozzata aprì loro la finestra dall’interno,/si scambiarono lingue e peccati/per poi sparire come fulmini/all’orizzonte in mezzo al cielo deserto./La mia finestra è aperta”).

I corpi descritti nei versi di Haji sono corpi pesanti, disfatti, stracciati: i volti hanno occhi senza palpebre spalancati sulla fissità del mondo, le bocche sono lacerate o cancellate, come nelle opere più inquietanti di Dalì e De Chirico.

C’è una corrispondenza tra l’universo e il poeta-uomo che diventa strumento e tramite di senso. Scrive il poeta in “Meriggio”: “Pieno della mia assenza,/avanzo lentamente, con le pietre/che mi galleggiano tra le costole,/mi fluiscono dalla bocca e dagli occhi,/per poi cadere accanto a me e svanire”.

La metafora dell’occhio è un topos ritornante nella poetica di Golan Haji, che viene usata anche per fare riferimento al presente, un presente testimoniato dalla parola “qui/هنا” e che è vivo ma terribile e angusto: “Il presente è un occhio/con le palpebre mutilate/E lo sguardo sanguinante”, un’immagine che, per un gioco di accostamenti, ricorda da vicino l’opera dell’artista palestinese Raeda Saadeh.

Ma “qui/هنا” ritorna anche quando il poeta deve comunicarci che lui non è “di qui/né sono qui” perché vive nella condizione terribile e dolorosa dell’esilio di cui parla in molti dei versi.

La recensione prosegue su Editoriaraba

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