venerdì 23 maggio 2014

Editoriaraba - Driss Jaydane: “Il Marocco per me è più di un Paese, è una categoria dell’anima”

Lo spunto è un articolo che Roberta Catalano ha pubblicato ieri su MaroccoOggi, in cui ha intervistato lo scrittore, filosofo e politologo franco-marocchino Driss Jaydane, che ha appena pubblicato per Le Fennec il suo ultimo libro "Divan Marocain", un romanzo che è “la storia di una possessione, di un uomo che vede la realtà scivolargli tra le dita e che non fa nulla per trattenerla”.

Driss Jaydane è un politologo, filosofo e scrittore. Di padre marocchino e di madre francese, classe 1969, vive a Casablanca, dove oltre a scrivere romanzi, racconti e articoli, lavora come cronista alla Luxe Radio e dirige una collana, “Le Royaume des idées” presso le edizioni “La Croisée des Chemins”. È membro fondatore di “Marocains Pluriels”, un’associazione che “riunisce cittadini aperti verso il mondo, i marocchini di sangue o di cuore, di nascita o di adozione, di qui o di altrove… che hanno in comune la difesa dei valori di apertura, di tolleranza, di condivisione e la volontà di contribuire all’avanzamento del paese verso la modernità”.

I suoi contributi alle attività culturali del paese sono in effetti numerosi e sempre vigorosi. Jaydane ha infatti pubblicato diversi articoli piuttosto forti in cui denuncia le ingiustizie che esistono nel suo paese, animato da un evidente amore per questa terra. I temi che tratta ruotano attorno alla questione dell’identità, della cultura, delle relazioni sociali e di dominazione. La sua passione per la filosofia è uno strumento che usa spesso anche per contrastare l’integralismo islamico.

Il suo primo romanzo, “Le Jour venu”, uscito nel 2006 con la casa editrice “Seuil”, denuncia attraverso la storia di un rampollo dell’alta borghesia marocchina i privilegi e i vizi di una classe sociale che sembra farsi beffe della realtà che la circonda.

Nel 2013 è uscito il suo “Parole ouverte” per le edizioni “La Croisée des Chemins”, un saggio giornalistico e filosofico sul mondo attuale, in cui analizza le turbolenze dell’Occidente e del mondo arabo.

Le edizioni “Le Fennec” hanno da poco pubblicato il suo secondo romanzo, “Divan Marocain”. Un lavoro che si distingue dagli altri per la narrazione in prima persona, che lo rende ancor più diretto e efficace. Con il suo stile distintivo, senza fronzoli né filtri.

Signor Jaydane, può parlarci dell’attività di «Marocains Pluriels»?
È un’associazione che, in fondo, ha una sola funzione, quella di far sì che il pleonasmo “marocchini plurali” un giorno non abbia più motivo di esistere! Mi spiego: ogni cultura, e questa è un’evidenza, è plurale; di culture “pure”, garantite, senza Altro, non ne conosco… Ma può accadere che a un certo punto della sua storia, una società invochi una sorta di purezza, che si trovi, si sogni – si tratta in realtà di un incubo – una sorta di unicità, sempre bramata, sempre pericolosa. Marocains Pluriels lavora e crede in ciò che chiamiamo l’Identità al lavoro. Sì, senza tregua, sempre, rimettere ciò che siamo sul telaio, il telaio di Umano. Così, essere unici significa esattamente non essere fatti di una cosa sola.

Nel suo romanzo "Le Jour venu" lei descrive una generazione casablanchese viziata e noncurante della realtà che la circonda: come mai ha scelto di inserirla negli anni Ottanta? E cosa è diventata oggi, trent’anni dopo?
Diciamo che gli anni Ottanta corrispondono a due momenti di cui il romanzo è fatto. Sono gli anni che mi hanno permesso di attingere dalla mia adolescenza, e far parlare un narratore – la cui età non è più, nel momento in cui parla, quella di Moulay, ma ovviamente quella di un adulto – che torna sul suo passato di “povero piccolo ragazzo ricco”, il cui sguardo è protetto, ma anche accecato da muri spessi, quelli della sua villa, della sua vita fatta di domestici, di un autista – personaggio centrale del romanzo – , di cure volte ogni giorno alla soddisfazione di ogni suo minimo desiderio di borghese soddisfatto, ma probabilmente pronto ad attraversare lo specchio senza desiderare davvero di passarci attraverso.

Questo Moulay non sa, realmente, da dove viene, visto che per sapere da dove si viene bisogna essere stati “altrove”. Lo visiterà quest’altrove, accontentandosi, appunto, di visitarlo, senza mai sentirsi a casa. Il romanzo è, in fondo, la storia di un “riscatto”, nel senso che il commercio ha dato a questa parola. Oggi? Questa generazione, se somiglia al narratore, può aver capito la menzogna che le avrà fatto da infanzia e da adolescenza, o può aver rifiutato tale menzogna, essersi confrontata con essa – gli eventi possono avercela condotta, fallimento, esaurimento del sistema, entropia insomma–; così come potrebbe essersi lasciata “riscattare”, ciò offrirebbe dei Moulay diventati cittadini responsabili, dei veri borghesi utili, come può dare anche dei falliti perpetui, che si consumano in un anacronismo probabilmente cinico, da desiderare di perpetuare la menzogna, in una sorta di edonismo tragico, quando la società, essa, vive nel suo proprio tempo.

Perché la scelta della narrazione in prima persona nel suo ultimo romanzo?
Per scelta, quasi politica: non c’era dubbio che doveva farsi carico di tutto ciò che il narratore dice di lui, e del suo mondo, che fu il mio.

Il suo nome completo è Driss Chraibi Jaydane: un segno del destino?
Sì, questo nome, che mi ha quasi costretto a scrivere, mi è stato ripreso il giorno in cui ho scritto. «Non mi rinchiuderai nel tuo nome» è il titolo di un libro che scriverò un giorno, per tentare di comprendere ciò che ho fatto di questo segno del destino.

Lei fa parte di quegli scrittori marocchini che, in virtù dell’amore che hanno verso il loro paese, non esitano a denunciarne gli aspetti tristi e drammatici. Qual è la reazione del pubblico?
Il Marocco è per me più di un paese, è una categoria dell’Essere, dell’Anima! Con ciò che ci è stato dato, di storia, di spiritualità, di lingue, di incontri, con gli ebrei, i cristiani, l’Islam di apertura, questo magnifico mosaico che è il mio paese, il Marocco è quell’Unico che non è fatto da una sola cosa, e io aspiro a che diventi la terra rispettosa dell’eredità che oggi vale solo come l’esigenza di essere più grandi di noi stessi! Quest’eredità è un’etica che ci vieta qualsiasi chiusura, qualsiasi ripiegamento su noi stessi, e similmente ci ordina di essere una civiltà, nel nostro rapporto con noi stessi, ancora una volta, ma anche e soprattutto con gli altri. Se io denuncio ciò che può renderci mediocri, è proprio in nome di quest’eredità. Questo Marocco, “categoria dell’Anima”, è per me una categoria concreta, un luogo di pensiero, di creazione, un’esigenza, lo ripeto, un’estetica e un’etica, che ci sono state consegnate. Allora, quando vedo o sento o leggo dei comportamenti o dei propositi indegni della categoria in cui colloco il mio paese, sì, vado in collera. Mi riferisco all’inciviltà, alla xenofobia, al populismo, che è proprio di certe formazioni politiche, per esempio, i propositi razzisti, la limitatezza di spirito che si insegna in particolare a una gioventù che ha bisogna che le si apra il Mondo, ma in nome di tale eredità, e non di una sorta di diluizione di tipo ultra-liberale che in fondo non ha altra funzione che quella di farne dei consumatori universali. Per questo l’Educazione, questo dramma marocchino, va completamente rivista, riletta. Potrei parlargliene molto a lungo… Ma ho fiducia in ciò che siamo, e so che il mio paese, se appartiene alla categoria in cui lo situo, dimostrerà che non mi sono sbagliato. È anche il senso del mio impegno, e di più, della mia vita.

Qui in Italia purtroppo la letteratura marocchina non è quasi arrivata, a parte i due o tre scrittori più noti e «tradizionali». La letteratura di denuncia, quella impegnata, ha fatto una comparsa vent’anni fa con la traduzione di due romanzi di Abdelhak Serhane, per poi scomparire. Tuttavia si direbbe che il pubblico apprezzi maggiormente una letteratura orientalista e spesso banale. Secondo lei quale è la ragione, è forse più rassicurante?
I veri scrittori hanno spesso una sola e unica idea, una sola e unica ossessione. A volte, ciò che ossessiona uno scrittore può anche, e succede, diventare ciò che gli impedirà di avere un grande pubblico – si leggono uno, due libri di un autore considerato impegnato, e si finisce per stancarsi delle sue denunce così come ci si stanca delle immagini troppo crude, troppo violente, in TV. È vero che un buon numero dei nostri grandi autori ha iniziato con delle grida, di dolore, di collera, è raro che da noi uno scrittore si sia fatto conoscere attraverso una prosa leggera, un libro buffo… Il Sociale è, in un certo modo, il re-segreto di molti dei nostri romanzi, il romanzo di Condizione, quello dei poveri, delle donne, dei bambini di strada, dei potenti quando umiliano gli impotenti, insomma, più che il romanzo di condizione direi il romanzo dialettico, nel senso hegeliano del termine. Allora è vero che alla fine, per poco che un autore “riempia” il suo testo di luride ingiustizie, di corruzione ecc… capisce cosa voglio dire… Quindi, non ci sarebbe da porre la questione di questa letteratura? E cosa dire del suo ruolo, mentre il cinema si fa carico oggi del peso delle ingiustizie… Che dire anche dello stato mentale, o del desiderio dei lettori, che forse hanno voglia che li si colpisca con iniquità, corruzione – perché no – ma con rinnovate modalità. Si pone anche la questione della lingua! Da parte mia, mi è sempre più difficile leggere dei dialoghi in francese, teoricamente pronunciati da gente di montagna, o da bambini che il francese non lo parlano, in una rivisitazione urbana e francese del tipo “Alors, Hamid, quoi de neuf, ce matin?” È contro questo tipo di dialogo che lotto! Al punto che li rendo impossibili, in particolare in Divan Marocain.

A parte le eccezioni note, perché secondo lei è difficile far cadere le frontiere editoriali?
Da un punto di vista delle tematiche, di ciò di cui parlano i nostri libri, direi che ci troviamo a un incrocio che rende forse le cose difficili. In un certo modo, possiamo dire che per quanto concerne la letteratura « di denuncia », chiamiamola così, la regola vuole che se abbiamo letto un libro possiamo averne letti dieci al tempo stesso. Come dicevo, molti dei nostri romanzi sono pieni, romanzi nei romanzi, ognuno gioca a chi denuncerà di più i mali della società che sono, diciamolo, numerosi. Ora, si sa, è necessario per la letteratura che il singolo porti all’universale. A leggere alcuni di questi testi si potrebbe credere, a causa di questo Tutto sociologico che rafforza il singolo, che le nostre “storie” appartengano a una forma di ontologia, qualcosa che ci sarebbe proprio. E lì interviene un altro punto, che attiene a ciò che rapidamente chiamerei la trappola postmoderna, ovvero quelle letterature, o quegli editori, che cacciano la specificità come quando si vogliono prendere delle farfalle nel retino per meglio fissarle a un’asse di sughero e lasciarle lì, paralizzate. Ma questo modo di fare serve anche, basti pensare ai disegni dei nostri venditori di specifico, ai venditori di storie per retini da farfalle, che rendono quasi impossibile l’uscita dallo specifico e l’ingresso nell’universale, oserei dire, per questo non scriviamo la Metamorfosi… Quindi, per tornare alla sua domanda, libri che finiscono per stare alla letteratura come dei vestiti folcloristici stanno alla Cultura potrebbero, in un certo senso, superare le frontiere al punto da dare, per esempio, a un giovane americano o a una giovane francese la voglia di essere uno dei personaggi del libro, cioè senza travestirsi da “personaggio marocchino”, ma passando dalla porta aperta attraverso il libro per ritrovare la via del Mondo, che permette, da sola, il superamento delle frontiere.

Cosa può dirci dell’ambito letterario attuale in Marocco, della condizione degli scrittori e dei lettori? Da qui si sente un’aria frizzante e piena di energia.
Diciamo che c’è movimento, che è viva, frizzante, proprio come dice lei.

Esiste in Marocco una giovane generazione di scrittori interessanti e insoliti, di cui lei fa parte, che riscaldano il cuore: siete in contatto tra voi?
Sì, ci vediamo ogni volta che possiamo, ho appena letto Amour Nomade, di Youssouf Amine Alami, un ragazzo che lavora, intelligente, brillante, pieno di humour, che sa perché scrive. Idem per Mohamed Hmoudane, di cui amo la gravità e lo humour, mi piace anche molto la prosa infernale di Bahaa Trabelsi; abbiamo dei nuovi arrivi, come Naïma Tagmouti, che ha appena pubblicato un primo romanzo davvero buono, La Liste, abbiamo Reda Dalil, che ha pubblicato Le Job, un primo romanzo notevole, questi due lavori sono originali e profondi. Dobbiamo leggerci, vederci, parlarci, è molto importante.






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